Di Maurizio Siciliano
Ho trovato estremamente interessante questo articolo di Daniela Monti apparso sul corriere della sera che pone in risalto l’ approccio “empatico”:
«Puoi sempre sapere quando una nuova idea sta diventando popolare: è quando la gente inizia a criticarla». Roman Krznaric, guru del pensiero empatico, mette le mani avanti: il brusio che disturba la cerimonia di incoronazione dell’empatia a strumento che salverà il mondo non è che il prezzo da pagare per la raggiunta celebrità. L’empatia sta vivendo il suo periodo d’oro. In nessun’altra epoca storica se n’è parlato tanto. Viviamo nel mezzo di una «smania empatica», per usare l’espressione di Steven Pinker, docente ad Harvard. La nuova intelligenza, quella più adatta a comprendere il nostro tempo e il nostro mondo, è quella empatica. Solo i manager e i politici empatici hanno successo, non si può esistere senza essere empatici, lo chiediamo ai vicini di casa, ai colleghi di lavoro, ai compagni di palestra. Se possiamo insegnare ai nostri figli a gestire le emozioni mettendosi nei panni dell’altro, ridurremo il bullismo. Se possiamo coltivare l’intelligenza emotiva fra i medici, avremo un’assistenza sanitaria migliore e più compassionevole. In Ruanda, scrive Krznaric nel suo ultimo libro dal timido titolo Empatia: un manuale per la rivoluzione, una fiction vista dal 90 per cento della popolazione è infarcita di messaggi empatici nello sforzo di prevenire il ritorno della violenza etnica fra Tutsi e Hutu.
La frequenza delle ricerche su Google per la parola empatia è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni. A puntellare la straordinaria ascesa i bestseller — dal più datato al più recente — di Daniel Goleman, L’Intelligenza emotiva, del 1995, e di Jeremy Rifkin, La civiltà empatica, del 2010. «Perché un quoziente intellettivo altissimo non mette al riparo da grandi fallimenti?», si chiedeva il primo. «Perché a governare settori decisivi della nostra vita non provvede l’intelligenza astratta dei soliti test, ma una complessa miscela fatta di autocontrollo, perseveranza, empatia, attenzione agli altri» è la risposta. Se, come scrive Hans Magnus Enzensberger, il Novecento è stato il secolo del trionfo del quoziente intellettivo e dell’ossessione di misurare l’intelligenza con rigore scientifico, oggi il QI è messo in ombra dall’EQ, Emotional Intelligence Quotient. Dopo l’onda del riflusso che ha seguito i movimenti giovanili degli Anni Sessanta e Settanta, spingendo ad un generale ripiegamento nella sfera privata, «con una di quelle svolte di cui non è facile rintracciare la radice, il motore delle emozioni collettive ha ripreso a girare — scrive il filosofo Roberto Esposito —. È bastato che una scintilla scoccasse in una metropoli perché lo stesso fuoco si accendesse in quella vicina» e poi in un’altra ancora, in una corrente inarrestabile di emotività collettiva.
I Millennials — i nati fra gli Anni Ottanta e i primi Anni Duemila — castigati dalla crisi economica, sono stati costretti a ripensare le categorie del successo, sempre meno legato al possesso e sempre più in tensione verso qualcosa d’altro, di nuovo. La sfida è inventare modelli di relazione, lavori che possano fare la differenza nella propria vita e in quella degli altri. L’economia sociale e solidale è la sola che non sta conoscendo la crisi. «C’è stato un tempo in cui prendersi cura del prossimo era da sfigati: in cui lo stile di un giovane occidentale domandava il più gelido e ironico distacco. Ma forse questo tempo è finito. L’ethos dei trentenni di oggi è fatto di empatia e — per dirla con papa Francesco — di nessuna paura verso la tenerezza: un umore collettivo chiamato New Sincerity», ha scritto Giorgio Fontana su La Lettura.
Anche la crisi finanziaria del 2008 ci ha messo del suo, rimescolando i valori e aprendo un’epoca che dà maggiori importanza alla cooperazione e alla responsabilità sociale e ambientale. Cosi l’etologo Frans de Waal può scrivere nel suo libro L’età dell’empatia. Lezioni dalla natura per una società più solidale: «L’avidità ha fatto il suo tempo. Ora è il momento dell’empatia». E il presidente americano Obama può ripetere nei suoi discorsi: «Dobbiamo parlare di più della nostra mancanza di empatia. È solo quando sei mosso da qualcosa di più grande di te stesso che realizzi il tuo vero potenziale». Ma qualcosa scricchiola, l’euforia ha fatto dimenticare il lato oscuro dell’empatia, la sua fragilità. «L’empaticamente corretto è il nuovo politicamente corretto» scrive provocatorio The Atlantic. Al conformismo linguistico — spesso ipocrita e finto buonista — dettato dalla volontà di tutelare tutti senza offendere nessuno si sta affiancando un conformismo delle emozioni, guscio di protezione delle sensibilità individuali? «Tutti coloro che non sanno subito dare agli altri l’impressione della comprensione, condividendo valori ed emozioni, vengono scartati», scrive Paul-Henri Moinet, in un acido articolo suLe Nouvel Economiste. Il rischio è trasformare l’empatia nella coperta di Linus di una società che ha continuo bisogno di conforto fisico e intellettuale, annullando la fatica di doverci spiegare e magari anche confrontare in modo duro per poterci conoscere. «L’intelligenza empatica sviluppata solo in una direzione e ingenuamente identificata con lo strumento per raggiungere l’armonia fra gli uomini è un approccio destinato a fallire — dice Andrea Pinotti, docente di Estetica alla Statale di Milano, autore di Empatia. Storia di un’idea da Platone al post umano (Laterza) —. L’empatia ha un ruolo se riesce ad abbracciare anche la dimensione dei conflitti, in un rapporto dialettico in cui le diversità si confrontano, assumendosi dei rischi». «La tesi più avanzata, che emerge dagli studi sui circuiti neuronali, sostiene che l’empatia è un’esperienza molto complessa, non riconducibile solo a una risposta emotiva automatica», spiega Laura Boella, docente di Filosofia morale, autrice di Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia (Raffaello Cortina). La risposta emotiva è come un fuoco di paglia. Possiamo essere colpiti dal dolore di una persona accanto a noi, ma perché il disagio diventi preoccupazione per l’altro «è necessario l’intervento delle capacità cognitive, che non significa il freddo calcolo della ragione, ma la messa in prospettiva, l’immaginare la vita altrui. Insomma, bisogna lavorarci un po’ su, mettendosi in gioco». L’idea di un’empatia «facile» è romantica e naif. La paura d’amare, di stringere amicizie profonde sono spie della difficoltà di uscire dai nostri confini, allargare l’esperienza e accogliere la gioia e il dolore altrui, tutte caratteristiche dell’intelligenza emotiva. Come scrive ancora Enzensberger «continuiamo a vivere nel timore di essere stupidi». Solo i test di valutazione sono cambiati.
Noi da sempre lavoriamo affinché sempre più aziende affinino la selezione e la formazione del personale su persone che possiedono caratteristiche di intelligenza emotiva come la capacità empatica e soprattutto il saper riconoscere il proprio stato d’animo in ogni contesto, mettendo in atto le scelte possibili per migliorarlo.