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Il management è l’arte di prendere decisioni sulla base di informazioni insufficienti. (Roy Rowan)

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Il management è l’arte di
prendere decisioni
sulla base di informazioni
insufficienti. (Roy Rowan)

L’ UE della spesa e dello spreco sta al liberismo come Justin Bieber al Rock

Di Javier García Dall’ultima volta che l’abbiamo intervistato, Daniel Lacalle ha già pubblicato due nuovi libri: “Viaje a la Libertad Economica” e da pochissimi giorni “La Madre de todas las Batallas” (in Inglese pubblicati in Wiley: “Life in the Financial Markets” e “The Energy World is Flat”). Daniel è un economista brillante, specializzato in energia e mercati finanziari ed entrambi i libri sono ricchi di idee, riflessioni e dati, che ci permettono di avvicinarci alla realtà da diversi punti di vista.
Daniel, mi permetta di cominciare in maniera molto diretta. Mi piace molto la definizione che usa spesso Xavier-Sala-i-Martin, riguardo a ciò che significa essere liberista. Gli piace affermare che i veri liberisti sono coloro a cui non piace che gli si mettano le mani nel portafogli (con tasse/spesa pubblica), né nelle braghe (in allusione alla libertà individuale e di pensiero). Qual è la sua definizione di liberista?

Un liberista è chi difende per lo stato ciò che vuole per se stesso e la sua famiglia. Libertà e opportunità. Gli interventisti chiedono per lo stato ciò che mai oserebbero chiedere ai propri figli: indebitarsi, spendere al di sopra delle proprie possibilità e poi addebitare tutto ai nipoti. Un liberista è colui che difende un modello di società aperto, con basso livello di imposizione fiscale e meritocrazia, che permette alle persone e alle imprese di crescere ed essere solidali senza imporre un paternalismo assistenzialista. Che incentiva il progresso economico partendo dall’efficienza e la libertà. Nel suo libro c’è un passaggio in cui ha vissuto in prima persona ciò che accadeva dall’altro lato del muro di Berlino, dove afferma che “si strappava, si portava via alle persone la possibilità di crescere, di sbagliarsi, di essere felici, di piangere, in cambio di una sicurezza che, per di più, non avevano”. Libertà versus sicurezza, è questo il falso trade-off che le società devono affrontare? In qualsiasi paese, per molti conflitti che ci siano, si vedono bambini che ridono e giocano. Vedere nella Berlino comunista bambini silenziosi e a testa in giù, terrorizzati dinnanzi ai politici comunisti che ci accompagnavano per “mostrarci le bontà del comunismo”, mi ha impressionato profondamente. Non lo dimenticherò mai. E’ triste, però l’interventismo, disincentivando lo sforzo individuale, rende la povertà confortevole e crea clienti. Uno stato interventista si comporta come un maltrattatore, che mina la volontà e i desideri degli uomini per distruggere la loro fiducia con la scusa che “senza di me non sei nulla” e “chi ti può amare più di me”. E i cittadini finiscono col crederci. Pensano che, effettivamente, senza “la protezione dei soldi” di questo stato divoratore, gli sarà impossibile sopravvivere. In questo modo si ottengono clienti che non escono mai dalla povertà e che per di più si adeguano ad essa. Zombi assistiti. “La libertà economica e il capitalismo reale creano maggiore prosperità e sono più sociali dei sistemi assistenzialisti”. Quali sono i tasselli fondamentali di tale capitalismo reale? Non c’è che da vedere le statistiche. I paesi con maggiore libertà economica sono i più prosperi e con maggiore ricchezza tra le classi più svantaggiate. Bisogna innanzitutto distinguere tra capitalismo reale e “socialcapitalismo tra compari”, che è ciò che alcuni chiamano erroneamente in Europa “neoliberismo” e che non è altro che una manifestazione di statalismo assoluto, perfettamente paragonabile ai cosiddetti “boliborghesi” venezuelani o gli oligarchi della URSS. Il capitalismo reale si sostiene nel libero mercato, in istituzioni indipendenti, nella sicurezza giuridica, le competenze e la meritocrazia. Questo capitalismo ha fatto sì che la povertà mondiale si riducesse come mai in passato, che le opportunità per tutti migliorassero e che la classe media prosperasse, per quanto oggi ci possa sembrare che non sia così perché ci siamo molto abituati ai frutti che ci ha dato la ricchezza generata negli ultimi decenni di libertà. Il problema è che in Europa, in particolare l’Europa creata a immagine e somiglianza della Francia, che ha molto di socialismo interventista e abbastanza poco di liberismo, ci sembri “neoliberista” che lo stato raggiunga un 46% del Pil, che si perda il controllo della spesa pubblica e del deficit e che si implementino ripetutamente piani di investimento statali in settori moribondi. L’Unione Europea della spesa e dello spreco sta al liberismo come Justin Bieber al Rock. Noi spagnoli abbiamo una cattiva definizione di ciò che intendiamo per capitalismo? Totalmente. Perché in realtà abbiamo sempre vissuto un’economia estremamente guidata e interventista, e , riconosciamolo, molti sopravvivono sotto il mantello repressore anche se paternalista del mega Stato… fino a quando la devono poi pagare. Quest’ immagine irreale di capitalismo ci conduce ad affermazioni aberranti come “si è salvata la banca privata”, quando abbiamo dovuto assistere al disastro delle casse di risparmio pubbliche e alle concessioni avallate dallo stato per infrastrutture “per la crescita”. Dico sempre che per molti spagnoli la definizione di pubblico e privato dipende da ciò che conviene o dà fastidio. Se si tratta di errori madornali, come la megalomania delle opere di ingegneria civile, dicono che è “privato”. Così facendo si giustifica sempre la favola di ciò che è “pubblico”, questa sorta di immagine edulcorata e idilliaca dove tutto va sempre bene fino a quando non compare qualche malvagio “capitalista” che rompe il sogno “pubblico”, che avrebbe funzionato magnificamente se la sua impeccabile verginità non fosse stata macchiata dal vile settore privato… che è quello che paga le tasse con cui si sostiene quest’inganno. “Tutti uguali nella povertà, quando il motto dovrebbe essere tutti liberi per raggiungere la pienezza di ogni talento… è il modo migliore per aiutare i più poveri”. Esiste una parità di opportunità naturale che ogni individuo possiede per raggiungere questa pienezza di ogni talento? Se non è così, come possiamo garantire le pari opportunità? L’uguaglianza perfetta non esiste. Né nell’URSS né a Cuba. Non c’è che da vedere le fortune dei leader di questi regimi. Il capitalismo e il liberismo sono una lotta eterna delle forze che spingono in avanti contro quelle che intorpidiscono. E bisogna sempre criticare gli eccessi e ciò che non funziona, e lottare affinché si continui a migliorare. Tali eccessi ed errori non si risolvono con l’interventismo, ma con istituzioni e regolatori indipendenti ed affidabili. L’interventismo comporta che poi il governo decida unilateralmente a chi concedere favori e sostenere l’inefficiente sempre che gli torni utile, a scapito del risparmiatore. Evitare di creare incentivi perversi è parte di questa costante lotta. Pensare che il capitalismo sia perfetto in se stesso è un errore. Però il capitalismo è l’unico sistema economico che impara ed evolve dai suoi errori perché gli incentivi non sono male allineati dal punto di partenza, come succede nel socialismo e nel comunismo, che distruggono ogni possibilità di cambiamento, pur di perpetuare il modello unico e sostenere lo stato – l’apparato burocratico – come obiettivo centrale. In relazione con la domanda precedente, uno dei grandi discorsi radicati nelle diverse società è che precisamente la fornitura di beni e servizi pubblici come l’educazione, la sanità, la sicurezza, aiutino a garantire la parità di opportunità: che ruolo bisogna assegnare allo stato e alle amministrazioni in un’economia? Lo stato deve permettere che questi servizi siano di qualità, efficienti e sostenibili, non deve monopolizzarli né usarli come strumenti di indottrinamento. Non sono contrario a educazione e sanità pubbliche, hanno sempre un loro posto, ma piuttosto alla giustificazione di sistemi inefficienti per il solo fatto di essere pubblici. Quando si ottengono risultati così disastrosi nel PISA (Programme for International Student Assessment), nonostante la spesa sia maggiore di quella di molti paesi, bisogna essere critici e farsi sentire. Dotare i servizi pubblici di questa qualità “angelica”, “infallibile” e intoccabile li rende peggiori e meno efficaci. Bisogna promuovere un’educazione e una sanità di qualità, privata e pubblica, in concorrenza e imparare gli uni dagli altri. E non dobbiamo mai dimenticare che sanità ed educazione pubbliche non sono gratuite. Si pagano, in anticipo, con le tasse. Il settore pubblico è un servizio pagato, e molto bene, non una ONG. Non è un favore che ci concede lo stato. Né qualcosa per cui dobbiamo ringraziare chi presta tale servizio.E’ una controprestazione per un pagamento che coprono, e di gran lunga, le nostre tasse. In linea con questo, come in altre politiche (per esempio nel settore ricerca e sviluppo), sembra che tendiamo ad associare “ammontare della spesa rispetto al Pil”, come indicatore della bontà (oppure no) di uno stato. Per esempio Podemos (partito politico spagnolo nato nel 2014), prospetta di equiparare la spesa pubblica spagnola rispetto al Pil di quella europea. La domanda è: e l’efficienza di questa spesa? Cosa crede potrebbe eccedere in Spagna, di spesa pubblica, e con quali conseguenze? Di nuovo, dimentichiamo i casi Invercaria, Omnium, ecc… Nel mio libro dedico un capitolo completo a ciò che chiamo la Spesa Politica, che suppone più di 80.000 milioni l’anno, e che non ha nulla a che vedere con i servizi che chiede la gente e che è la burocrazia per la burocrazia. E si nasconde molto in questi concetti “tappeto” dove tutto compare come “cooperazione”, ed anche in sanità ed educazione. Come se aggiungendo il termine “sociale” o “verde” a qualsiasi spesa stravagante, la si possa sempre legittimare. Guardi per esempio, in ricerca e sviluppo, questi studi sulla “pratica e discorso sull’uso della bicicletta” o sulla “proposta di demercificazione della casa”, tanti studi sulle cose più stravaganti e inutili che si nascondono nella ricerca e lo sviluppo… queste sovvenzioni al cinema senegalese, questi trentasei “osservatori” della Giunta di Andalusia, incluso uno sul Flamenco, comitati, vari organismi insulari, ecc… La cito: “Uscite dal circolo del sussidio, usate il talento per creare il vostro futuro. Non è impossibile.” Cosa c’è di sbagliato nel sistema di incentivi (legali, fiscali o culturali) spagnoli per uscire da questa “cultura del sussidio” ed essere una società più imprenditrice, più globale, più navigata… che rischia di più? Non eravamo così, però si è insinuato fra noi poco a poco la paura del fallimento, il pensare che “senza l’aiuto dello stato” o di qualche “padrino” non si raggiunge niente, l’invidia… la bolla immobiliare e anche rimanere “legati” a una casa può fare molto male, così come la paura di uscire dalla regione in cui si nasce. Francisco Umbral ci ha detto una volta in una conferenza che lo spagnolo medio stava diventando una “combinazione di un arbitro di calcio e un venditore di una piccola edicola” – giudicando senza partecipare al gioco e standosene seduto aspettando che la gente passi e compri -. Ed è molto dannosa questa cultura, a volte instillata sin dall’infanzia e da parte della famiglia, che bisogna “sistemarsi”, vivere vicino ai genitori, trascorrere venticinque anni da capetto di sezione in un’azienda pubblica, nell’amministrazione o in un’associazione, e andare in pensione. E questo non è lo spirito spagnolo. Lo spagnolo ha sempre lottato, ha aperto strade nuove e si è fatto sempre avanti con spirito combattivo. Lei dice che prima della crisi, il 74% del sistema bancario era in mano agli stati. Ci può spiegare meglio quest’affermazione? Come si sposa questo dato con il discorso dei grandi imperi di banchieri privati che manipolano i mercati? Perché è falsa. Guardi le Casse di Risparmio in Italia, i Landesbanks, le cajas spagnole, la banca pubblica in America Latina, Russia, Asia – Cina!-… Il peso della banca pubblica o gestita da stati e politici è stato determinante nell’aumento sproporzionato dei bilanci. Nel 2008 il 74% degli attivi finanziari si trovavano in entità statali o semi-statali. Se il problema fosse stato soltanto quello delle malvagie banche private, la crisi sarebbe terminata nel 2009. Aumenti di capitale, disinvestimenti e fusioni. Uno degli autori che più l’ ha influenzata, tanto nel pensiero economico come in quello sociale, è Hayek. A riguardo vorrei chiederle:
1.- Crede che Hayek in Spagna sia un grande dimenticato? Non dimenticato, volutamente ignorato. Nella BBC hanno da poco trasmesso programmi monografici su Hayek, Keynes e Marx. Molti spagnoli che studiano economia a Londra mi hanno detto che non potevano credere che ad Hayek si concedesse la stessa importanza. Hayek, Mises… sono deliberatamente ignorati da un certo mondo accademico che si orienta fondamentalmente all’interventismo. Chiaramente, con molte onorevoli eccezioni. 2.- Quali crede siano le lezioni più importanti che, a suo giudizio, sono più vive che mai nella sua estesissima opera? L’importanza della libertà e la fallacia del socialismo e della protezione dello stato. L’inganno della spesa pubblica come soluzione e dell’inflazione come panacea. Che continueremo a fare gli stessi errori, se non comprendiamo che lo stato che genera il problema continuerà a cadere negli stessi errori se non viene penalizzato per la cattiva gestione. Afferma che “dalle bolle speculative possiamo difenderci soltanto con buon senso e con analisi e informazione”.
1.- Quali sono i tre grandi miti o disinformazioni più importanti che crede siano radicati nella nostra società? a.- Che nel lungo periodo tutto aumenta. Dimentichiamo il costo di opportunità.
b.- Che il governo o l’autorità regolatrice risolva i nostri errori.
c.-Che esistono cospirazioni straniere contro di noi. 2.- Una grande bolla speculativa ci ha portati fin qui, ci ritroviamo di fronte ad una nuova? Senza dubbio. L’indebitamento totale della OCDE è aumentato durante la crisi. La cosiddetta austerity non esiste, si è solamente moderata leggermente la crescita esponenziale della spesa. I tipi di interesse bassi e una liquidità eccessiva hanno fatto sì che i titoli ad alto rischio (junk bonds) si quotassero ai tassi di rendimento più bassi da trentacinque anni, che i premi per il rischio precipitassero nonostante la crescita del debito e che le borse siano ai massimi, anche se i profitti aziendali non sono migliorati in modo rilevante. Tutto ciò si giustifica, si forniscono scuse, come nel 2005 – 2007 quando si diceva che ci trovavamo in un nuovo paradigma e la bolla immobiliare era un mito, ma è una bomba ad orologeria. C’è un intero capitolo molto diretto, “Abbassare subito le tasse”:
1.- Qual è la politica fiscale che crede stia facendo più male in questo momento alla nostra economia? Senza ombra di dubbio la decisione di “compensare” le entrate fiscali perdute con lo scoppio della bolla immobiliare, che significavano quasi 40.000 milioni all’anno, aumentando tasse ad aziende, a PMI, lavoratori autonomi e famiglie, così come l’IVA che ha avuto un impatto letale sul miglioramento dei consumi che, nonostante la ripresa, aumentano meno della metà del loro potenziale. Non c’è niente di più dannoso che mettere ostacoli ad un imprenditore quando comincia, quando già si assume un rischio, e il tipo di imposizione a cui sono soggetti nuovi liberi professionisti e imprese è inaccettabile. 2.- Oltre a diminuire le tasse, semplificherebbe il nostro sistema fiscale? Sì, ci sono troppe aliquote e troppe complessità. Un imprenditore nordamericano mi ha detto che non investiva in Spagna perché avrebbe dovuto spendere tutto in avvocati e consulenti per dirimere la matassa. Abbiamo bisogno di una flat tax, come in Irlanda, che sta uscendo meglio di molti altri da una crisi terribile. Parliamo adesso di energia, ‘arbitro del nuovo ordine mondiale’, come indica la copertina del libro: perché l’energia è la madre di tutte le battaglie? L’energia è il motore della crescita. Senza energia abbondante e a buon mercato la crescita rallenta o precipita. Non c’è che da vedere che i paesi che crescono meno sono quelli dove l’energia è più cara e sovvenzionata. La madre di tutte le battaglie è la guerra per le quote di mercato, tra tecnologia, operatori con diversi livelli di efficienza e con un obiettivo: essere leader nel settore dei trasporti. Cita Rex Tillerson, CEO di Exxon: “Né tu né io vedremo la fine del petrolio. La base delle risorse è enorme e può far fronte tanto alla domanda attuale come a quella delle future generazioni”. Ci sono stime affidabili sulle risorse petrolifere? Certamente, da parte di aziende, la IEA, Wood MacKenzie e centinaia di società di consulenza indipendenti. Il fatto che sia un settore molto frammentato fa sì che ognuno porti a termine enormi processi di analisi delle concessioni in cui opera. Inoltre sono concessioni in cui si trovano diversi operatori, anche nei paesi dell’OPEP. Se non si credesse nelle stime, non si investirebbe. Le teorie delle cospirazioni sulle risorse si controbattono facilmente. Nel 1991 mi dicevano “rimangono soltanto quarant’anni di petrolio”… e dimenticavano le scoperte e le nuove tecnologie. Oggi il tasso di sostituzione delle riserve certe rimane al di sopra del 100%. Quali sono i tre miti che crede siano più diffusi nell’ambito dell’energia? a.- Che il petrolio sta per finire e ci sarà un futuro indesiderabile tipo Mad Max.
b.- Che le materie prime possono soltanto aumentare.
c.- Che la crescita della domanda è esponenziale e non tiene conto dell’efficienza. La cito: “Il dilemma non è soltanto come soddisfare le necessità presenti, ma come soddisfare le richieste future e prevedibili in un modo più efficiente, sicuro e rispettoso con l’ambiente”. Come sarà il futuro paniere dei combustibili? Nel 2050 il petrolio e il carbone continueranno ad essere la principale fonte di energia primaria, però con un’enorme riduzione sulla percentuale attuale, che sarà sostituita dal gas naturale e dalle fonti rinnovabili, nella misura in cui migliorano i costi e aumenta l’efficienza. I grandi perdenti “relativi” della corsa verso il 2050 sono chiaramente il carbone, che può perdere quasi il 50% del suo peso, e il petrolio, che può perdere fino al 30%. “L’emissione di denaro e più di un decennio di ribassi dei tipi di interesse si sono tradotti in pressioni inflazionistiche sui prezzi delle materie prime, compensando parzialmente le pressioni deflazionistiche della tecnologia e la curva di apprendimento”. Che impatto ha ed avrà ciò in relazione ai costi di produzione e la capacità competitiva delle aziende? L’industria si adatta all’inflazione sia che ci sia un dollaro forte o un dollaro debole, in modo competitivo. Come ha fatto da 158 anni. Alcuni vinceranno ed altri perderanno. La cosa buona del settore energetico, che è la più frammentata delle grandi industrie, è che i sotto-segmenti dei servizi – e i suoi innumerevoli derivati -, ingegneria, raffineria, esplorazione e produzione dovranno darsi da fare come hanno fatto in passato, migliorando costi, efficienza e sviluppando tecnologia. “Il rapporto rischio-rendimento dell’investimento produttivo nell’economia reale è semplicemente insostenibile se paragonato con quello degli attivi finanziari liquidi”. Potrebbe spiegarci più dettagliatamente quest’affermazione? Il rischio di investire in un macchinario o impianto industriale, includendo tasse, domanda anemica, difficoltà operative, burocrazia, rispetto alla sua redditività reale (considerando la repressione finanziaria non arriva al 2% annuale nella media dell’UE dal 2005 al 2014), suppone una combinazione di maggiore rischio, minore liquidità e minore redditività rispetto agli attivi finanziari gonfiati al calore della stessa repressione finanziaria che affonda l’economia reale. La borsa sale più di qualsiasi investimento produttivo. E la colpa è dell’emissione di moneta e delle politiche inflazionistiche monetarie. Che pensa dello sfruttamento petrolifero nelle Canarie? Nel libro spiego dettagliatamente l’opportunità. Non esiste nessun paese che possa trovare petrolio e rifiuti gli investimenti. In città turistiche come Rio de Janeiro ci sono piattaforme di esplorazione a due chilometri dalla costa, senza problemi per il turismo. Qui ci tiriamo i capelli per esplorazioni di basso rischio a cinquanta chilometri. In breve, siamo o molto ricchi o molto stupidi da rifiutare investimenti non sovvenzionati che attirano fino a 5.000 posti di lavoro diretti e molti di più indiretti, senza rischi per il turismo e che possono ridurre le nostre importazioni di un 10%.

Tratto da: www.sintetia.com

(Traduzione in italiano di Pierluigi Della Ragione)

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