Non solo autisti, ma anche segretarie, avvocati, manager. Così la tecnologia sta cambiando tutto.
di Francesco Cancellato
Se un giorno gli storici si troveranno nella condizione di dover localizzare nel tempo e nello spazio l’evento in cui è iniziato tutto, probabilmente sceglieranno il 6 marzo del 2008, all’Sdk iPhone Keyonte, in occasione di una conferenza per gli sviluppatori informatici. Steve Jobs in persona la convocò per mostrar loro un’innovazione che avrebbe introdotto: si chiamava App Store e non c’è bisogno di spiegare, oggi, di cosa si tratti.
Al tempo, tuttavia, la cosa passò piuttosto sottotraccia. Diversi commenti, piuttosto si concentrarono sul cambio di paradigma di Apple, azienda che fino ad allora aveva progettato tutti i suoi hardware e i suoi software, facendo della chiusura verso l’esterno uno dei propri fattori di successo. E che, da quel momento, metteva a disposizione di chiunque i codici sorgente per realizzare applicazioni per iPhone, che sarebbero state vendute, per l’appunto, nel negozio virtuale dell’azienda di Cupertino.
Passa un anno, giorno più, giorno meno. È il 2009 quando Travis Kalanick e Garrett Camp, due sviluppatori di San Francisco, fondano Uber, un servizio che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato attraverso un’app che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti. I quali, nella versione più estrema Uberpop , sono essi stessi privati cittadini. L’idea ha successo oltre ogni aspettativa: Uber offre ai tanti dis e sottoccupati creati dalla crisi un’opportunità di reddito in più. E ai consumatori, un servizio di taxi migliore rispetto a quello tradizionale.
Alcuni governi, quello spagnolo ad esempio, corrono ai ripari e spinti dalle proteste dei taxisti, dichiarano Uber fuorilegge. Nel frattempo, tuttavia, i buoi sono scappati e le simil-Uber che operano nei più disparati ambiti di servizio nascono come conigli. Una proliferazione, questa, che assomiglia molto a una nuova rivoluzione industriale: «Nei primi anni del ventesimo secolo, Henry Ford mise assieme la catena di montaggio e il lavoro di massa per fare automobili più economiche, che trasformarono un giocattolo per ricchi in un mezzo di trasporto per tutti – scrive l’Economist, che al tema dell’on demand economy ha dedicato ampio spazio nell’ultimo numero del 2014 -. Oggi un gruppo d’imprenditori sta facendo la stessa cosa, mettendo assieme la forza dei computer con il lavoro indipendente per fornire a tutti servizi di lusso, fino ad ora destinati ai ricchi. Uber fornisce autisti, Handy fornisce servizi di pulizia, SpoonRocket porta cibi da ristorante direttamente a casa, Instacart fa la spesa per te. A San Francisco, un giovane programmatore può vivere come una principessa».
Fossero solo questi: UpCounsel è l’Uber degli avvocati, Washioquello delle lavanderie, BloomThat quello dei fiorari, Tongal dei creativi e dei video, FancyHands delle segretarie e degli assistenti personali, Medicast dei medici, Eden McCallum è una rete che organizza consulenti e che fa concorrenza a giganti come McKinsey. Addirittura, c’è il Business Talent Group, che fornisce capi on demand, ad aziende che non possono permettersi un top manager a tempo pieno. Ognuno di questi può contare su una rete di consulenti impressionanti, da centinaia a centinaia di migliaia di professionisti freelance, a disposizione del mercato.
Per il consumatore è una manna, in effetti. Per il lavoratore, invece? Secondo alcuni studi, negli Stati Uniti d’America, il 34% dei lavoratori è un freelance e sempre più lavorano per compagnie come Uber, che è arrivata a fatturare qualcosa come 13 miliardi di dollari. Per loro la questione è un po’ più spessa: «Invece che controllare risorse fisse, le imprese on-demand sono intermediari – racconta ancora l’Economist – che creano connessioni e sovrintendono la qualità. Non impiegano personale full-time cui garantiscono paga e contributi. Gli autisti di Uber sono pagati solamente quando lavorano e sono responsabili della loro pensione e dei loro servizi sanitari. Il rischio si trasferisce dall’azienda agli individui». Tuttavia, il rapporto con la clientela (pagamenti compresi) è totalmente ad appannaggio di questi nuovi capitalisti-intermediari.
Questo rischio non si trasferisce solo a chi lavora per Uber e aziende simili, e nemmeno solo per i taxisti o per tutti i professionisti che vedono minacciate le loro rendite di posizione: più di ogni altri, minaccia i lavoratori avversi al rischio, i cui diritti e le cui conquiste si trovano a fronteggiare una nuova concorrenza e un nuovo paradigma, che non è solo contrattuale, ma anche tecnologico. In altre parole: se hai uno di questi nuovi capitalisti on demand hai più opportunità, ma devi giocare alle condizioni del nuovo “grande mediatore”. Che come spesso accade, impone tariffe molto basse ai suoi lavoratori-freelance per attrarre i consumatori: «Stipendi fissi e sicurezza sociale sono caratteristiche di un economia in salute che si è progressivamente mossa dall’impiegare le persone per vivere al creare una più alta qualità dell’esistenza – ha dichiarato al Financial Times Arun Sundararajan, Professore alla Stern School dell’Università di New York University -. Temo che questi tempi stiano finendo».
La realtà tende a dare ragione a Sundararajan. Uber, ad esempio, chiama i suoi autisti driving partner, dei soci che ricevono una percentuale sulle tariffe, di solito pari circa all’80%. Il problema, semmai, è che Uber può arbitrariamente decidere di tagliare le tariffe della metà, il che può voler dire metà stipendio (o doppio lavoro, se preferite) per i suoi – aperte virgolette – “soci”. Ah, ovviamente, se la valutazione che i clienti danno loro scende sotto il punteggio di 4,7 stelle su 5, gli autisti possono essere “disattivati”, parola che ha un più noto sinonimo che inizia con la lettera elle.
Ci sono antidoti o contromisure a queste riduzioni arbitrarie di compenso o di retribuzione? No, non ci sono, stando a un articolo di Avi Asher-Schapiro di Jacobin Magazine, ripreso da Il Manifestolo scorso settembre:«Uber non negozierà mai con nessuna organizzazione che pretende di rappresentare gli autisti», avrebbe detto il direttore di Uber a Los Angeles William Barnes all’inizio di questa estate, quando il leader della Cada, organizzazione che insieme alla Teamster prova a organizzare la rappresentanza dei driving partner di Uber: «Questi lavoratori sono molto vulnerabili se non imparano ad agire insieme — dice Dan McKibbin, organizzatore dei Teamster della West Coast — in questo momento non hanno nessuno a proteggerli».
Ciò che complica ulteriormente il quadro, perlomeno nel dibattito statunitense, è che i freelance non si percepiscono come dei reietti del mercato del lavoro, né tantomeno vorrebbero tornare indietro: «Essere freelance è la nuova normalità – ha affermato in un’intervista a Forbes Sara Horovitz, fondatrice nel 2003 della Freelancers Union, la prima organizzazione sindacale-mutualistica di questa nuova forza lavoro negli Stati Uniti – è una nuova forza lavoro grande e cruciale ed è qui per rimanere». A differenza di quanto accade in Italia, in cui si tende sovente a rubricare il freelance come un dipendente travestito da libero professionista, negli Usa il tentativo della Horovitz e di altri è quello di consolidare e di estendere diritti, servizi e formazione a questa nuova ed emergente figura professionale.
In mezzo, tra le voglie di profitto senza freni dei nuovi giganti della on demand economy e il bisogno di legittimazione dei freelance, c’è la politica. Un territorio, questo, che fatica a essere regolata e che i legislatori faticano a capire come regolare, se mai hanno mai pensato a farlo. Quel che è certo è che nei prossimi anni la partita potrebbe investire un territorio normativo ben più ampio di quello che ha investito la discussione sul Jobs Act. L’esempio americano, per quel che può servire, insegna che occorre prepararsi in tempo, per comprendere e circoscrivere il fenomeno. Per non finire a subirlo, senza alcuna possibilità di dialettica.