di Lidia Baratta
Solo tra i dipendenti se ne contano oltre 2 milioni; gli autonomi sono invece 756mila
Lavorare non è più un’assicurazione sulla vita. Con la crisi economica pure questa certezza si è polverizzata. «Categorie di lavoratori regolarmente occupati si trovano di fatto in condizioni di povertà», si legge in uno studio della Commissione istruttoria per le politiche del lavoro e dei sistemi produttivi presentato al Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro (Cnel). Sono i cosiddetti working poor, lavoratori con un basso livello di reddito, divisi tra salari da fame e contratti a intermittenza. Solo tra i dipendenti se ne contano oltre 2 milioni; gli autonomi sono invece 756mila. Si tratta per lo più di giovani all’ingresso del mondo del lavoro che non riescono a rendersi autonomi dalle famiglie, stranieri poco tutelati e donne divise a fatica tra un impiego e la famiglia.
Quanti sono i working poor
Per quantificare i working poor, la Commissione ha individuato una soglia povertà sulla remunerazione oraria in base ai dati dell’Indagine sulle condizioni di vita condotta da Istat ed Eurostat. Per i dipendenti, la soglia individuata è di 9,5 euro all’ora; per gli autonomi 4,8 euro all’ora.
Rispetto agli altri Paesi europei, in Italia la quota di working poor tra i lavoratori dipendenti risulta contenuta rispetto alla media europea. Va tenuto conto, si legge nel rapporto, che «tanto maggiore è il salario mediano e la dispersione dei salari, tanto più elevata è la quota di working poor». Questa proporzione in Italia, nel 2010, era pari al 12,4 per cento sul totale dei dipendenti, inferiore sia alla media dell’Ue (17 per cento), sia alla media dei Paesi dell’Eurozona (14,8 per cento).
A questi dati bisogna aggiungere il sommerso non dichiarato. I settori a maggior incidenza di irregolarità (in cui più di un occupato su dieci risulta non regolare), come agricoltura, servizi alle famiglie, informazione e comunicazione, sono non a caso anche quelli dove è più alta la quota di lavoratori a basso salario. Sembra quindi esistere una correlazione positiva tra irregolarità e diffusione dei working poor.
Le cause del fenomeno
L’esistenza dei “lavoratori poveri” si può spiegare con cause diverse, legate all’evoluzione del mercato del lavoro e ai cambiamenti istituzionali. Tra i fattori di mercato, ci sono i cambiamenti tecnologici della struttura produttiva che hanno favorito la domanda di lavoratori qualificati rispetto a quelli meno qualificati; i processi di delocalizzazione che, spostando le fasi della produzione a maggiore intensità di lavoro nei Paesi emergenti, caratterizzati da bassi costi del lavoro, hanno portato a una compressione della crescita salariale soprattutto nel lavoro meno qualificato. Bisogna tener conto anche la terziarizzazione dell’economia e i cambiamenti demografici, come l’invecchiamento della popolazione e i flussi migratori.
Tra gli aspetti istituzionali, rientrano le forme di flessibilizzazione del mercato del lavoro, che hanno determinato spesso una riduzione delle tutele dei lavoratori e in alcuni casi anche un peggioramento della qualità delle posizioni lavorative, l’erosione del potere contrattuale dei sindacati e la minore copertura dei contratti collettivi nazionali. Questi fattori si sono tradotti in una progressiva polarizzazione della distribuzione dell’occupazione tra “buoni” lavori e “cattivi” posti di lavoro.
La crisi, poi, ha fatto la sua parte, portando a un generale arretramento dei salari e dei redditi, aumentando il rischio di disoccupazione e di inattività ma anche il rischio di povertà per gli occupati. La quota di lavoratori a basso reddito, come si vede nei grafici, è aumentata proprio negli anni della crisi.
Non solo negli anni della crisi è aumentata la quota di lavoratori con salario al di sotto della soglia di povertà, ma le loro condizioni sono peggiorate. La distanza dalla soglia di povertà è aumentata: se fino al 2008 era sufficiente in media un incremento di 1,3 euro del reddito orario per colmare la distanza dalla soglia, dal 2009 l’incremento necessario per consentire di uscire dalla condizione di working poor è salito a circa 2 euro all’ora netti.
Anche tra i lavoratori autonomi (senza dipendenti) è cresciuta la diffusione di occupati a bassa remunerazione: tra il 2010 e il 2011 c’è stato un incremento di oltre due punti percentuali (dal 13,8 al 15,9 per cento).
La riduzione delle ore di lavoro
L’andamento delle ore lavorate ha avuto un impatto non trascurabile sulle dinamiche e sulla distribuzione di retribuzioni e redditi, soprattutto per effetto del crescente ricorso al part time involontario e altre forme di riduzione degli orari di lavoro. Prima fra tutte, la cassa integrazione.
Tra i lavoratori a tempo pieno, difatti, la quota di working poor è aumentata con la crisi, di circa tre punti percentuali, e da allora rimane sostanzialmente stabile. Tra i part time, invece, c’è stato un forte incremento dell’incidenza nei primi anni della crisi (nel 2009, quasi un dipendente a tempo parziale su cinque risultava essere working poor, con una soglia calcolata sull’insieme ristretto dei part time), per poi ridursi dal 2011. Tra chi è rimasto lavoratore a tempo pieno, la riduzione degli orari è avvenuta prevalentemente con il ricorso alla cassa integrazione: questo ha ridotto i redditi netti, portando a un aumento del numero di lavoratori a basso reddito (che hanno superato i 2 milioni, quando fino al 2008 erano poco meno di 1 milione e 700 mila).
I working poor sono soprattutto giovani, donne e stranieri
Il rischio di essere un working poor non è lo stesso per tutti. I più colpiti sono i lavoratori dipendenti under 30. Un risultato che non sorprende, visto che i salari di ingresso sono molto bassi e lo sono soprattutto per quelle forme contrattuali che interessano i più giovani, cioè come l’apprendistato, il lavoro a tempo determinato e i contratti di formazione. Il problema sorge quando la condizione di working poor dura ben oltre la soglia di ingresso nel mercato del lavoro e diventa una sorta di trappola. «I bassi salari per i giovani spesso rappresentano trappole della povertà, quando posizioni precarie a basso salario si alternano a periodi di disoccupazione e a nuovi posti di lavoro precari, senza prospettive di progressione salariale», si legge nello studio.
Anche gli stranieri soffrono un maggior rischio, cosa che riflette le caratteristiche dell’immigrazione nel nostro Paese: concentrata in occupazioni poco professionalizzate e specializzate e in settori dove prevalgono livelli retributivi più bassi della media. D’altra parte gli stranieri, soprattutto se non comunitari, tendono ad accettare lavori con salari più bassi, visto che lunghi periodi di disoccupazione possono mettere a repentaglio i permessi di soggiorno. E anche le coperture delle risorse familiari e dei risparmi inviduali sono più basse.
Un’altra categoria a rischio working poor è quella dei lavoratori con un basso livello d’istruzione. Lavoratori meno istruiti tendono ad avere minore produttività, anche perché spesso impiegati in professioni poco qualificate, e di conseguenza meno retribuite: più di uno su cinque rientra nella categoria dei lavoratori a bassa retribuzione. Ma la laurea, d’altro canto, non è certo una assicurazione per il benessere: tra i laureati, l’incidenza di lavoratori a bassa remunerazione è raddoppiata tra prima e dopo la crisi. Il titolo accademico protegge sì dai rischi, ma meno che in passato.
Poi c’è anche una differenza di genere. Tenendo conto della maggiore diffusione del part time tra le donne e della segregazione dell’occupazione femminile in settori e professioni meno remunerate, la percentuale di donne occupate a basso salario è più elevata. Non a caso, i settori con una maggiore incidenza di lavoratori working poor sono quelli in cui c’è una maggiore intensità di lavoro poco qualificato: l’agricoltura, dove quasi un occupato dipendente su due percepisce un reddito orario inferiore alla soglia, i servizi sociali e alle persone (le badanti soprattutto), e i servizi turistici, di alloggio e ristorazione.
Anche le forme contrattuali incidono. Rapporti di lavoro meno stabili sono caratterizzati da una maggior incidenza di lavoratori a basso reddito: la precarietà non si fa sentire solo in termini di durata del contratto di lavoro ma anche di livello reddituale. Se i contratti a tempo determinato si trasformano in contratti a tempo indeterminato, i bassi salari dovrebbero rappresentare solo una fase transitoria della carriera, ma spesso questo passaggio non avviene. E la condizione di working poor rischia di diventare permanente.
A essere a maggiore rischio di povertà sono soprattutto i lavoratori autonomi: quasi uno su quattro ha un reddito netto orario inferiore alla soglia dei 4,8 euro all’ora. In questo caso, più che i giovanissimi, sono a rischio i trentenni: si tratta soprattutto di liberi professionisti, all’inizio della carriera, che lavorano in proprio o per piccolissime imprese come partite Iva.
Il rischio “trappola della povertà” per i più giovani
A guardare i dati, la permanenza nello status di lavoratore a bassa retribuzione è tutto sommato limitata: da un anno all’altro meno di un lavoratore a bassa remunerazione su dieci rimane in questa condizione. Più della metà esce dallo stato di working poor, passando sopra la soglia di povertà. Ma circa il 38 per cento, davanti a un mercato del lavoro “povero” di opportunità, esce dallo stato di working poor diventando disoccupato, o addirittura passando nell’inattività.
I giovani (fino a 30 anni) sperimentano la transizione tra la fine del percorso scolastico e l’inizio dell’attività lavorativa. Per loro, però, la probabilità di essere un working poor è più che doppia rispetto agli adulti (intendendo con questo termine le persone dai 31 ai 64 anni). Il problema è che spesso questa condizione è tutt’altro che temporanea: tra i giovani working poor, il tasso di permanenza da un anno all’altro è tre volte rispetto a quello degli adulti. In questo modo i contratti precari a intermittenza, gli stipendi bassi e le difficoltà economiche rischiano di diventare una trappola e non l’anticamera a un lavoro più stabile. Le donne, come si può immaginare, sono invece quelle che subiscono maggiormente il peso della difficile conciliazione tra responsabilità familiari e impegni lavorativi, e più frequentemente degli uomini si trovano in condizioni di inattività, uscendo dal mercato del lavoro, anche se in condizioni di working poor, se il salario non è sufficiente a coprire costi come l’asilo o la baby sitter.
I settori più felici
I settori in cui la qualità del lavoro è maggiore (secondo chi ci lavora) sono l’istruzione, la pubblica amministrazione e la sanità, settori prevalentemente pubblici, nei quali la quota di lavoratori a basso salario è modesta. Sono settori, fatta eccezione per la sanità, dove anche la qualità del tempo di lavoro, e quindi la possibilità di conciliazione con la vita privata, è molto elevata rispetto alla media.
Tratto da Linkiesta