“Sono contitolare di una piccola azienda e il mio socio sta cercando di portarmela via. Che cosa posso fare?”
Di P.Danese
@woelfenbuettel
“Ingaggia l’avvocato più feroce che puoi trovare, e un buon commercialista, e rovinagli la vita. Forse dovrai fare una transazione. Vai a parlare con dieci avvocati e ingaggia quello che ti sembra il migliore e quello che ti può far concludere l’accordo più vantaggioso. Metti alle corde quel bastardo. Non farti fregare.”
Duro, no? Certamente un approccio che stride in tempi buonisti e in cui impera il politicamente corretto come questi in cui viviamo… E’ tratto dalle domande finali di una conferenza di Donald Trump nel 2006: non era ancora il Presidente degli Stati Uniti d’America, ma ha sempre fatto parlare di sé.
Seguendo prevalentemente piccole e medie aziende la quotidianità che vivo è quella di un rapporto diretto e spesso molto familiare dell’imprenditore con i suoi collaboratori e con i suoi fornitori. Tantissimi sono gli scrupoli che l’azienda si fa quando si rende conto che i tempi sono maturi per prendere decisioni che spesso sono vissute, proprio a fronte del rapporto di vicinanza, come decisioni difficili. Non so se è solo la componente della familiarità a giocare un ruolo attivo nella gestione di questi squilibri tra ciò che l‘azienda dà, ciò che l’azienda riceve e la capacità di valutare lo iato, il gap, la distanza tra le due dimensioni. Credo sia più un insieme di fattori a rendere difficile il prendere una decisione e portarla alla sua naturale conseguenza; far seguire, rapidamente, il pensiero all’azione perché i tempi morti non risolvono le problematiche e anzi, quando non le amplificano, spesso le radicalizzano o ne allargano l’area sulla quale si ripercuote l’effetto negativo.
L’imprenditore cerca di ricreare in azienda quello stesso clima di fiducia e di lealtà, nella maggior parte dei casi, che ha trovato nel contesto nel quale è cresciuto e si aspetta, come fisiologica conseguenza, che questo generi, a cascata, interesse per l’ambiente nel quale si opera, amore per il lavoro, passione per i progetti che si portano avanti, rispetto per il cliente, riconoscenza e lealtà; eppure sono infinite le docce fredde sotto le quali si trovano a bagnarsi senza comprendere cosa sia andato storto… lasciando così spazio libero a frustrazione, giustificazioni e materiale florido per storytelling su ciò che non ha funzionato.
Ecco perché la risposta secca, dura eppure semplicissima di The Donald l’ho messa in testa a queste riflessioni: perché trovo che troppo frequentemente i sensi di colpa mal celati da un mal riposto senso di responsabilità siano all’origine di decisioni non prese o di azioni non portate avanti con la necessaria fermezza e determinazione. E questo è solo la punta dell’iceberg, è l’epifania terminale di un processo con molte falle; vediamole insieme:
- L’azienda è una struttura gerarchica, in cui le responsabilità sono verticalizzate e tendono verso le posizioni apicali; pur in un ambiente informale e amicale non devono mai essere azzerate le differenze di ruolo, di compiti, di responsabilità, di risultati;
- In un’azienda in cui si voglia impostare un ambiente di successo, devono esserci dei parametri di crescita meritocratica e, per renderli possibili, non possono mancare strumenti forti, chiari, condivisi di monitoraggio e controllo della performance individuale; percorsi di supporto e formazione alla crescita, al miglioramento continuo; momenti di confronto aperto e leale sulle criticità, sui percorsi da intraprendere, sulle possibili ascese o sulle tappe in cui interrogarsi se ha senso proseguire;
- La trasparenza nei sistemi di valutazione e la sincerità nel confronto sulle performance deve essere un appuntamento e un’abitudine costante, deve essere vissuta come un pettine che passa a individuare e a trovare il modo per sciogliere i nodi, non come un momento per nascondere i problemi e procrastinarli o addirittura scaricarli su altri; deve essere un momento in cui tutti si mettono in discussione con il comune obiettivo di fare un altro passo avanti, chi sta sotto e chi sta sopra nella scala gerarchica;
- Darsi degli obiettivi a medio e lungo termine, misurando gli scostamenti, aggiustando il tiro in base a ciò che succede e agli scenari che possono aprire o ridefinire priorità e target; condividere e discutere, con costanza, quegli obiettivi e quelli scenari;
- Uscire dalla logica paternalista del lavoro come forma di sussistenza in cui l’imprenditore compra il tempo del dipendente in maniera slegata e autonoma dalla prestazione: il “lavoro”, come sentì dire un giorno da un candidato, è diverso dal “mestiere”. Alla parola “mestiere” è legata la memoria della passione, del saper fare, dell’apprendere e migliorare per se stessi, per la propria soddisfazione e come realizzazione di sé. Quanti hanno la fortuna di avere collaboratori che vivono il lavoro come mestiere? Quanti amano ciò che fanno? Quanti realizzano loro stessi nel migliorarsi, nell’andare in profondità, nel curare i dettagli, nel rispettare i tempi di un lavoro?
Saper valutare, mettere insieme tutte queste informazioni e saper dare ad ogni variabile il giusto peso porta ad una ponderazione corretta di come proseguire un rapporto, mettendo sui due piatti della bilancia da una parte ciò che si è dato, quanto si è investito in termini economici, di tempo, di affiancamento, di formazione, di aspettative, di strumenti e dall’altra parte quanto si è ricevuto in termini non solo di risultati, ma di dedizione, di passione, di rispetto per il lavoro e per i clienti, di lealtà verso l’ambiente nel suo complesso, di profondità. Se lo scambio è impari, se la lancetta pende tutta verso la prima parte allora non è il pietismo, non sarà il paternalismo e non è mai stato il tempo a risolvere lo scompenso, anzi: aggraverà quel divario in maniera inesorabile e dal momento in cui ne avete consapevolezza sarà vostra la responsabilità di averlo tollerato, alimentandolo, portandolo fino alle sue impensate conseguenze. Sarà il mea culpa ciò che bisognerà recitare quando l’aver accettato di avere in squadra chi non gioca per la squadra ma solo per se stesso, quando i risultati scadenti di uno diverranno la mediocrità di tutti, quando la noia e il trascinarsi verso la fine della giornata senza interesse per gli step di controllo, di verifica e di autovalutazione saranno diventati la quotidianità.
La soluzione? L’avete trovata all’inizio di questa riflessione ed è proprio perché è così banalmente semplice che andava spiegata per non sembrare ciò che non è.
La salute dell’azienda significa ricchezza per tutti: per i dipendenti, per le loro famiglie, per i fornitori, per lo Stato e la società, per l’imprenditore che ha deciso di rischiare e che ha visto un’opportunità dove altri vedevano problemi, debiti e limiti.
Per questo non bisogna avere pietà: perché non ne guadagna nessuno e ci perdono tutti. Abbiate coraggio, siate sinceri.