Mi è capitato di recente un fatto che prima o poi nella vita capita a tutti: sono andata da un sarto per farmi confezionare un abito per un’occasione importante. Avevo in mente un’idea precisa del risultato che volevo ottenere, sia come vestibilità, sia come impressione sugli altri invitati; quindi con il mio cartamodello tra le mani mi sono presentata dal sarto e gli ho descritto esattamente cosa volevo, come avrebbe dovuto farmelo e quali dovessero essere i tempi di consegna. La sua risposta però mi ha spiazzato: il primo elemento da valutare e da scegliere è il tessuto; è da questo che dipende l’immagine dell’abito e la sua portabilità. Il miglior cartamodello non porterà a nulla se il tessuto non sarà quello adatto.
Sulla strada di casa poi riflettevo… c’è un filo rosso che lega il mio lavoro a quello del sarto: quando entriamo in azienda e iniziamo a lavorare sulle persone che sono già presenti, o su quelle che entreranno, si ripropongono ogni volta gli stessi cliché. Ogni azienda ha i suoi cartamodelli per il personale: sa quali sono i compiti che assegna loro, sa quali sono i risultati attesi e quelli ottenuti, conosce le caratteristiche della mansione, ne redige un mansionario, valuta quelle del dipendente e misura gli scostamenti tra queste e quelle. Quando però il gap tra i risultati attesi e quelli ottenuti è superiore alle previsioni l’effetto è lo stesso di quando ci guardiamo allo specchio dopo aver indossato un abito che ci piaceva molto ma addosso stringe sui fianchi producendo l’indesiderato “effetto balena”. Ci coglie un misto di inadeguatezza e di stupore: “come è possibile che un vestito così bello storpi a tal punto la mia figura?” Lo stesso disagio lo cogliamo in azienda quando, dopo aver inserito un candidato che aveva sostenuto un colloquio brillante ma che sull’operatività è risultato un sorprendente fallimento, il titolare ci guarda sconsolato chiedendo dove ha sbagliato. Ecco l’errore: sta nella scelta del tessuto!
La scienza sviluppatasi sullo studio delle risorse umane, sulle loro performance, come misurarle e come ottimizzarle, non prescinde dalla base del processo che è proprio la strategia di recruiting. Il dibattito si infiamma tra chi valuta gli skill – le capacità acquisibili, le pratiche, le tecniche che possono essere imparate a scuola o per esperienza – e chi le competences che sono invece di più difficile identificazione e fanno parte del bagaglio caratteriale che, seppur influenzato dalle esperienze, rimane comunque un patrimonio innato – le attitudini insomma.
A sostegno dei fautori del recruiting basato sulle competences viene anche Dee Hock, fondatore e CEO emerito della Visa, che ha dichiarato di credere fermamente nell’importanza di una politica di assunzione basata sulle qualità intrinseche del candidato, anziché sull’esperienza specifica o sulle conoscenze tecnico-professionali. Ha detto: “Assumete e promuovete basandovi anzitutto sull’integrità; poi, nell’ordine, sulla motivazione, sulla capacità, sull’intelligenza; e solo alla fine, e per ultimo, sull’esperienza. Senza l’integrità, la motivazione è pericolosa; senza la motivazione, la capacità è inutile; senza la capacità, l’intelligenza serve a poco; senza l’intelligenza, le conoscenze perdono significato; e senza le conoscenze, l’esperienza non porta da nessuna parte. L’esperienza è utile e proficua quando viene utilizzata da coloro che possiedono tutte le altre qualità”.
Contro questa filosofia aziendale però si schierano problematiche operative immediate che esercitano pressione sulla struttura e su chi seleziona: scegliere tra un trentenne brillante con dieci anni di esperienza e un giovane promettente con tutto da imparare uscito il mese scorso dall’università, spesso non sembra una scelta difficile. Eppure le insidie stanno proprio nel lavorare sull’urgenza, con una prospettiva di breve termine che non mi permette di utilizzare un orizzonte sufficientemente ampio. La mia decisione deve ponderare equamente le caratteristiche della persona, i risultati raggiunti, le modalità con le quali persegue e raggiunge gli obiettivi, la sua capacità di relazionarsi al mondo esterno e di trarne vantaggi.
Proseguendo nella metafora sartoriale, quando scelgo un determinato tessuto per realizzare quell’immagine, non tiro fuori un rotolo a caso e ci appoggio sopra il cartamodello, ma vado a vedere come sono stati realizzati gli abiti con immagini simili a quella che ho in mente io, confronto i risultati e considero se quel tessuto è adatto a realizzare ciò che voglio. Così come le persone, non esiste un tessuto assolutamente valido per ogni confezione, né tessuti inutilizzabili. Nemmeno il miglior sarto saprà realizzare la fodera di un cuscino comodo se gli fornirete un metro quadro di juta. Il sarto migliore è quello che sa scegliere la materia prima idonea all’opera che ha in testa.
Allo stesso modo mi devo porre di fronte ai candidati: in ognuno andiamo a cercare la sua prossimità ai valori della struttura nella quale verrà inserito per evitare che la distanza fisiologica da una azienda che ancora non conosce si trasformi col tempo non in Una proficua alternativa che possa portare innovazione arricchimento, ma in un percorso ad ostacoli che finisce per imboccare vicoli ciechi. Al di Ià delle responsabilità di gestione, chi seleziona deve avere presente con esattezza quale sarà l’ambiente relazionale net quale il candidato andrà inserito, quali saranno gli obiettivi assegnati, come verranno verificati e misurati e quali saranno gli strumenti a disposizione per ottenerli.
Se, come dice Hock, “l’esperienza ~ utile e proficua quando viene utilizzata da coloro che possiedono tutte le altre qualità”, rimane comunque fermo il punto che l’esperienza è fatta di mete raggiunte, di ostacoli individuati e superati, di insuccessi digeriti e trasformati in esperienze positive. Questa è la sostanza che va cercata in un candidato, perché ne è la sua spina dorsale e ne costituisce net tempo l’unico tratto che possa essere in grado di replicare.
Paola Danese