di Paola Danese
Capita di farsi un’idea sbagliata. Capita con gli amici, con il partner, con i collaboratori, capita alla guida dell’auto mentre pensi che la bicicletta che ti precede andrà dritta e invece svolta improvvisamente a sinistra senza dare indicazioni. Capita tutti i giorni e solo di rado abbiamo la contezza di quante scelte sbagliate sono state dettate da una cattiva analisi dei dati o da quante volte le nostre decisioni siano state una conseguenza di un abbaglio che si è rivelato, solo in seguito, una valutazione errata. Se nella quotidianità del nostro privato questo comporta un litigio in più o un sonno rigeneratore in meno, poco importa in fondo: lo consideriamo parte della vita sociale e del rischio di fidarsi “del proprio istinto”.
Ma in un mondo che cambia al ritmo dell’aggiornamento di una pagina social del quotidiano nazionale però, dove lo storytelling di se stessi, delle proprie competenze e del proprio modo di stare al mondo è passato dall’essere una abilità di pochi a una caratteristica prevalente, saper riconoscere i dati di realtà all’interno del racconto che ognuno ormai fa di se stesso diventa essenziale, almeno nel Business.
Gli artifici dialettici e le doti comunicative possono riuscire a ricoprire di vernice densa e compatta qualsiasi superficie e se non siamo dotati degli strumenti necessari rischiamo di accorgerci della corrosione e della ruggine, del pessimo stato di conservazione di ciò che la vernice nascondeva solo dopo molto tempo, quando ormai le decisioni sono state prese e a cascata ne sono conseguite molte altre. Quante situazioni di disagio vivete oggi che sono frutto di una cattiva scelta? Da quante persone siete circondati oggi che col senno di poi non invitereste alla festa di compleanno di vostro figlio? Quanti cattivi investimenti siete stati convinti a fare da personaggi che millantavano competenze e professionalità? Quante volte non avete ascoltato il vostro istinto perché tutto sommato il discorso aveva un suo senso razionale? E quante volte vi siete chiesti dove avevate sbagliato?
Al recente TEDx di Bologna in uno dei talk ci si chiedeva come debba essere un manager; la risposta è stata: curioso.
Curioso? Di cosa?
Mi guardo attorno e le persone più interessanti che conosco sono persone curiose; persone che potrei ascoltare per ore parlare di argomenti di cui alle volte nemmeno avevo sentito parlare, persone che approfondiscono la banalità prevalente, persone che indagano, domandano, si interrogano sulle loro certezze. E io, che ho sempre pensato che il primo compito di un buon manager fosse il mantra di Welch “non fare danno” mi sono chiesta come si possano abbinare le due cose. Ed è semplice: non fare danno è molto difficile se non dubiti, se ti muovi solo sulle tue certezze, se ti accontenti dello storytelling dominante, se sei convinto di essere e, per questo, di sapere.
Esiste un antidoto, mi chiedevo tempo fa, allo storytelling, alla mistificazione della realtà? Mi ero risposta che l’unica strada possibile fosse l’approfondimento, l’indefessa volontà di guardare le cose nella loro profondità, l’unghia che gratta la superficie; eppure questa strada la si può percorrere solo con la curiosità, non esistono altri mezzi.
La curiosità è ciò che aiuta il venditore nel suo rapporto con il cliente: è ciò che lo mette nelle condizioni di interessarsi a lui, ai motivi che lo portano ad ascoltare un venditore, che lo muoveranno a compiere un acquisto, è il grande motore che mi rende sinceramente interessato a trovare qualcosa che posso condividere con lui e, in questo modo, a mettermi nei suoi panni, a guardare il mondo coi suoi occhi o attraverso i suoi occhiali che, a primo impatto, sicuramente mi sembreranno deformanti.
La curiosità è ciò che sostiene il selezionatore quando interroga un candidato per poterlo valutare, è quella che gli permette di raccogliere quei dati che gli diranno se il candidato sta cercando un posto di lavoro o solo uno stipendio, di valutare se inserito nel contesto aziendale per il quale si è candidato potrà essere d’aiuto o di intralcio, se sarà in grado di apprendere e portare valore aggiunto o se sarà predone di know how senza lasciare all’azienda altro che non sia l’amaro in bocca.
La curiosità è determinante per l’imprenditore quando percepisce nuove opportunità di business, quando decide di percorrere strade sconosciute ai più e deve interrogare i dati che ha disposizione per ridurre al massimo la possibilità di sbagliare; è essenziale quando nel suo percorso incontra dei segnali di opportunità possibili: è la curiosità che lo fa approfondire, ragionare, cercare soluzioni dove altri non ne hanno trovate.
La curiosità salverebbe tutti noi, ogni giorno nei rapporti verso gli altri e verso noi stessi: la lealtà profonda che dobbiamo avere per essere curiosi nasce dall’accettazione di non sapere proprio su quelle materie e su quei dati sui quali ci sentiamo più sicuri. La sicurezza crea zone d’ombra all’interno delle quali sorgono problemi senza che ce ne accorgiamo. Dare per scontato qualcosa perché è banale, perché “lo sanno tutti” o perché riteniamo di avere compiti più importanti da svolgere è il più grande errore di chi gestisce risorse. La curiosità porta ad approfondire i dettagli, a porsi interrogativi sulle nostre zone di comfort, a trovare aree di miglioramento dove tutto ha sempre funzionato, a vedere la concretezza di ciò che un collaboratore davvero ogni giorno fa per l’azienda osservando i numeri che produce, ascoltando parlare i suoi risultati, interrogandolo su come operativamente li ha raggiunti giorno dopo giorno, permette di individuare quegli elementi di equilibrio che non posso toccare senza rischiare di creare danno.
La curiosità ci salva dalle nostre convinzioni e dalla noia ed è l’unico strumento reale che riduce il gap tra superficie e profondità.
Sei curioso?