di Paola Danese
@woelfenbuettel
Se prendiamo per buona la definizione che “manager” è chi gestisce persone, dobbiamo prendere atto che “gestire persone” è un lavoro. Chiunque si sia trovato coinvolto in questa attività sa quanto sia difficile, quante energie richieda, quanti insuccessi si accumulino nel perseguire l’ottenimento dei risultati di chi abbiamo a fianco, dei collaboratori che ci sono stati assegnati.
Ormai la letteratura e le fucine di corsi per manager hanno dato ampiamente spazio a cosa significhi FARE il manager e perseguire gli obiettivi che questa categoria prevede. Eppure in azienda, soprattutto nelle realtà di medie dimensioni, il responsabile di un gruppo di persone spesso si perde in modalità fantasiose e contorte per motivare i propri collaboratori e di fronte al loro insuccesso è tentato di scaricare le responsabilità del fallimento sulle incapacità del collaboratore, sulla sua miopia organizzativa, sulla sua impreparazione, sulle sue incompetenze. Nonostante la miriade di libri sul management letti, nonostante gli appunti accumulati sulla scrivania durante i meeting formativi, rimane un compito difficile per il manager quello dell’analisi del proprio lavoro, dei propri errori.
Si cercano innovative formule di gestione, spesso astruse nell’applicazione, e si finisce per rendere complesso qualcosa che in realtà, nella sua semplicità trattiene e rilascia, giorno dopo giorno, tutta la sua potenza.
Lou Holtz, allenatore del Notre Dame -squadra di football americano- quando parla della propria filosofia di gestione racconta:
“Il mio lavoro non consiste nel motivare i giocatori, perché lo sono già straordinariamente per conto loro. Il mio compito è di non demotivarli.”
Responsabilizzare le persone e aiutarle ad ottenere risultati non significa fare qualcosa per loro ma adoperarsi perché abbiano tutti gli strumenti per ottenere i risultati sui quali saranno misurati, fare in modo che ogni ostacolo che possano incontrare su quel percorso, sia già stato previsto e gestito, significa stare dietro le quinte, lontano dalle luci della ribalta, e lavorare perché sul palcoscenico della quotidianità la loro rappresentazione riesca con meno intoppi possibili. Rimanendo nella metafora del teatro, significa mettersi nella buca del gobbo e suggerire le parole perché la loro amnesia momentanea non infici la preparazione di mesi, il lavoro del gruppo e il loro orgoglio non esca ferito da una sconfitta, da una brutta figura.
La gestione delle persone passa soprattutto, non ci stancheremo mai di dirlo, di trasferirlo, di scriverlo attraverso la concessione, il permesso ai collaboratori di sbagliare. Solo sbagliando ci danno la possibilità di correggerli, di capire quale distanza ancora li separa dal successo, in che cosa siamo stati negligenti, quale aspetto della nostra applicazione dei dati deve essere migliorato. I loro errori ci danno la concretezza delle nostre abilità di manager o dei nostri limiti.
Per far crescere i nostri collaboratori dobbiamo poter cambiare, modificare il nostro approccio alle situazioni, il nostro modo di guardare agli errori: nostri e loro.
Scrive Tom Peters:
“Il pericolo pubblico numero uno sono quei capi che non capiscono l’importanza dell’insuccesso”.
Alla fine della vostra giornata di lavoro, mentre spegnete il computer e pensate al meritato riposo serale, fermatevi a pensare a che cosa avete fatto esattamente durante la giornata per rimuovere gli ostacoli al successo dalla strada dei vostri collaboratori, di quei potenziali campioni sui quali avete deciso, spesso non troppo tempo addietro, di investire.
Saranno i loro risultati a misurare realmente le vostre capacità. Mai il contrario.