Per ogni imprenditore o manager la gestione e valorizzazione delle risorse umane costituisce sempre un impegno prioritario, fatto di sensibilità e capacità di motivazione.
Questo impegno si rivela ancora più critico in tempi così incerti, dove i paradigmi competitivi si modificano profondamente e molte nostre imprese riescono a vedere solo orizzonti a breve termine.
In questi orizzonti brevi, per mantenere un accettabile equilibrio, spesso –ahimè- il primo risparmio si fa sui costi del personale e sugli investimenti intangibili (formazione, comunicazione, innovazione organizzativa ecc). A volte, di fronte all’ansia della quotidianità, anche un corretto stile relazionale viene meno… Da consulenti di direzione aziendale ne siamo a volte testimoni.
Eppure, come ci ricordava il grande P.Drucker ‘Il management riguarda gli esseri umani. Il suo compito è di far lavorare insieme le persone, di fare in modo che i loro punti di forza siano efficaci e i loro punti deboli irrilevanti…Ogni impresa richiede commitment verso obiettivi comuni e valori condivisi. Senza questo commitment non esiste impresa ma solo un’accozzaglia di persone’.
Eppure, il capitale intellettuale di un’azienda costituisce il principale fattore distintivo e spesso il maggior valore anche in termini di asset.
Naturalmente il rapporto tra azienda e collaboratori dipende anche da fattori esterni, è complesso e deve essere reciproco: è chiaro che –accanto al rispetto e alla motivazione da parte della direzione- oggi i collaboratori debbano dimostrare flessibilità intelligente e professionalità.
Ad es. la qualità delle risorse umane delle nostre piccole e medie imprese è mediamente molto alto a livello europeo, risorse umane ricche di competenze e di commitment (dedizione), ma naturalmente non sempre è così e non tutti i collaboratori sono talentuosi e creativi.
Ogni bravo capo sa che deve gestire un team dove solitamente ci sono poche eccellenze e molti follower che vanno motivati (si incontrano anche delusioni, ma a volte si trovano lì i futuri leader inespressi..).
Il futuro del lavoro
Il futuro del lavoro è già oggi. Sempre più legato alle conoscenze, interconnesso all’interno e all’esterno delle singole imprese, esso reclama collaboratori curiosi, attenti alle relazioni (coworkers) e selfconfident.
Questo comporta una profonda rivisitazione anche dell’approccio manageriale/imprenditoriale e delle stesse strutture organizzative, che devono essere lean, capaci di ‘pensare leggero in un mondo veloce’, valorizzando l’osmosi tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ (crowdsourcing dell’innovazione).
Così il concetto stesso di ‘posto di lavoro’ si modifica, avanzano esigenze di nuova flessibilità da entrambe le parti, ma non sempre gli approcci culturali e gli strumenti organizzativi sono ancora adeguati.
Ad es. come conciliare l’esigenza del ‘mestiere’ stabile (‘il piacere del lavoro ben fatto’, diceva E.Duerkheim) con quella del cosiddetto ‘multitasking’? Come evitare cioè che- soprattutto nelle pmi con il personale al minimo- prevalga il ‘fare di tutto un po’?
Quali gli organigrammi e i metodi decisionali del domani? Quali strumenti ci possono essere per conciliare il tempo-lavoro con il tempo personale senza aumentare i costi?
E infine, come governare sistemi collaborativi tra imprese ubicate in varie parti del mondo che coinvolgono culture sociali e professionalità diverse?
In sostanza, se il capitale intellettuale è decisivo, quali realistiche politiche si possono adottare verso le risorse umane in tempi di così veloce cambiamento?
Illustriamo una breve lista di domande che utilizziamo nei nostri audit aziendali, con alcuni suggerimenti particolarmente dedicati alle piccole e medie imprese.
Qual è la vostra People Strategy?
Ogni organizzazione moderna dovrebbe avere una propria strategia rivolta alla crescita delle competenze e delle capacità organizzative e relazionali dei collaboratori (People Strategy). Essa è alla base anche della più ampia Corporate Social Responsibility (CSR) e dunque dell’immagine stessa dell’organizzazione nel suo contesto competitivo.
L’obiettivo è generare maggiore engagement, dedizione verso i clienti e gli stakeholders, diffondere buone pratiche e innovazione, facilitare l’entrata e la valorizzazione di nuovi talenti, ridurre le diseconomie (difendere i margini) ecc.
Dunque qual è e come è formalizzata la vostra People Strategy? Come sostenete e valutate il vostro Capitale Intellettuale interno?
Ricordiamo che il Capitale Intellettuale (o intangible assets) è costituito da capitale umano, capitale organizzativo e capitale relazionale dell’impresa e si può anche misurarne il valore economico secondo i parametri IAS 38 (International Accounting Standard). v. il ns. articolo 2/12 su www.baldassi.it
Al centro della Poeple Strategy vi è la formazione continua e segmentata, ricordando che occorre un progetto personalizzato e che la formazione non può cambiare il ‘software’ delle persone ma solo aiutarle a tirare fuori il meglio che hanno.
Qual è lo stile e la qualità della leadership in azienda?
Per la condivisione della missione aziendale azioni quali formazione, carta dei valori, riunioni informative, occasioni motivazionali ecc. sono importanti.
Ma anzitutto occorrono etica e l’esempio dei capi.
Molti anni fa D.McGregor ricordava le regole di base per una leadership efficace: affidare compiti chiari, concreti e misurabili e accompagnare le persone nel loro percorso di miglioramento.
Qual è oggi (soprattutto nella crisi che viviamo) lo stile della vostra leadership?
Partecipativa, orientata al compito, ‘situazionista’?
In particolare nelle piccole e medie imprese a gestione familiare, il vecchio problema culturale della leadership ‘fai da te’ si scontra con l’esigenza impellente di inserire competenze manageriali o consulenziali esterne: non c’è dubbio che una parte della progressiva perdita di competitività di molte nostre pmi discenda da questo nodo ancora non risolto adeguatamente.
Il nostro imprenditore ‘schumpeteriano’ eccelle nel protagonismo creativo, rischia e innova ogni giorno e anche in questa lunga recessione dimostra il suo valore, ma non si può fare tutto da soli o alla ‘vecchia maniera’..
Attualmente in molte pmi sono fortunatamente inseriti anche manager capaci, spesso giovani, che apportano strumenti gestionali innovativi: ma quale autonomia decisionale hanno effettivamente? E come li facciamo crescere?
Questo aspetto riguarda in parte anche l’arrivo degli imprenditori junior: di fatto, dopo anni di seminari e stimoli, in molte pmi vediamo che questa delicata fase della vita di azienda (passaggio generazionale e dis-continuità competitiva) viene ancora gestita con logiche ‘fai da te’, con inevitabili tensioni o fallimenti.
E poi la gestione quotidiana del cambiamento: ecco l’esigenza di programmi e strumenti di change management che affrontino le nuove complessità competitive e le esigenze di una nuova dote: la resilienza.
Anche qui è spesso necessario l’apporto di capaci consulenti di direzione che si interfaccino con le sensibilità tipiche delle pmi: tra i nostri soci APCO ce ne sono molti (www.apcoitalia.it).
In sintesi tutto ciò comporta non solo adeguati programmi di formazione e tutoraggio manageriale ma anche una riflessione sul senso stesso di alcune logiche gestionali di fronte ai nuovi paradigmi e al nuovo rapporto tra imprenditorialità e management. (1)
Quali sono le vostre politiche attuali su organigrammi e processi organizzativi?
Avete un organigramma ‘vero’? Sono definite le priorità che attendete dai responsabili di funzione?
I rispettivi compiti sono ‘chiari, concreti e misurabili’? L’analisi dei flussi organizzativi (le attività) considera indicatori (KPI) adeguati? Utilizzate flow charts, cronoprogrammi ecc?
Qui per molte aziende c’è sicuramente tanto da fare: è noto che l’insieme delle inefficienze, delle ri-lavorazioni, dei costi imprevisti verso il mercato ecc. erode abitualmente i margini e per di più crea insoddisfazione da parte dei clienti/stakeholder. Oggi si deve saper fare meglio con meno.
L’informalità gestionale e un certo soggettivismo che –nei fatti- ancora si rilevano nelle pmi non sempre vanno a favore di una capacità reattiva efficace ed efficiente.
Insomma va bene che oggi spesso si deve ‘pensare veloce’ ma nel decision making è bene utilizzare anche il ‘pensiero riflessivo’ (D.Kahnemann).
Ricordiamo infine che gli organigrammi e i flussi sono flessibili per definizione ma sono necessari, vanno comunicati chiaramente e ‘riempiti’ di competenze e indicatori: insomma non basta esibire la certificazione ISO 9001 né bastano i programmi informatici.
Un posto particolare nella gestione dei processi è occupato dal knowledge management, cioè dalle tecniche per diffondere e valorizzare il patrimonio di conoscenze che esiste nell’azienda: l’obiettivo è fecondare le conoscenze esplicite con quella parte di conoscenze implicite che non viene adeguatamente riversata.
Questo patrimonio risulta importante non solo per gestire i processi interni ma anche per affrontare le nuove logiche organizzative ‘a rete’, dentro e fuori i distretti.
Ci occupiamo da molti anni di queste tecniche ed abbiamo visto come possono effettivamente contribuire a migliorare complessivamente i vari processi organizzativi.
Quali sono oggi le vostre job policies?
C’è adeguata corrispondenza tra ruoli e persone? Quali le politiche di job evaluation e job compensation? Quanto soffre ancora la vostra azienda del mito quantitativo del ‘presenzialismo’ (overtime, cioè straordinari non pagati) quale segno di fedeltà?
Adottate soluzioni mirate di diversity management (orari flessibili, part time ecc)? Come viene intesa in azienda la parola ‘flessibilità’?
Evidente che job policies adeguate reclamano non solo un approccio ‘oggettivo’ nella valutazione delle persone e delle loro performance, ma anche profonda sensibilità ai bisogni soggettivi.
Ricordiamo che spesso la motivazione dei collaboratori si conquista con piccole attenzioni più che con i quattrini…
E in particolare per le soluzioni di diversity management, ricordiamo che le migliori esperienze internazionali si basano non solo su ‘orari di entrata-uscita flessibili’ ma su un ampio range di possibili benefit quali: congedi di genitorialità, banca delle ore, job sharing e telelavoro, voucher per l’assistenza ad anziani, convenzioni sanitarie o per acquisti, servizi di time saving per il disbrigo di pratiche ecc. (2)
Evidentemente queste pratiche comportano anche una rivisitazione personalizzata delle job compensations, all’interno dei contratti nazionali o aziendali.
Adottate periodici assessment (analisi di clima, sociogrammi, bilancio delle competenze ecc) coinvolgendo anche consulenti esterni esperti di azienda?
Le tecniche gestionali e motivazionali che abbiamo sopra ricordato vanno programmate e implementate in base alle esigenze ad hoc della singola azienda.
Un’analisi almeno annuale sul clima interno- condotto assieme al consulente di direzione- permette di monitorare lo stato delle relazioni e delle competenze (attuali e future) in rapporto alla necessaria flessibilità organizzativa.
Ad es. una cosa sono gli organigrammi ed un’altra i sociogrammi (chi lavora volentieri con chi): in un’organizzazione fatta di persone vanno considerate adeguatamente.
In particolare un bravo consulente può aiutarvi a definire e programmare per i collaboratori-chiave un Individual Development Plan (IDP), cioè percorsi individuali di sviluppo delle competenze, compreso il tutoring formativo.
Ed oggi esistono vari supporti -pubblici o privati es.Fondimpresa- e risorse per sostenere questi programmi individualizzati.
Come organizzate il job recruitment?
Certo per molte aziende –con personale in CIG o in mobilità- l’assunzione oggi non è il problema principale …eppure prima o dopo dovrete affrontarlo.
Avete una politica per attrarre nuovi talenti? Avete definito correttamente il profilo di chi state cercando oggi? Quali canali utilizzate e come? Siete sicuri di non avere già potenzialmente in azienda quella figura che cercate?
Intanto sappiamo che ogni turn over di personale delle posizioni-chiave (per demotivazione, inadeguatezza ecc) ha costi diretti e indiretti notevoli: molte volte le aziende sottovalutano questi ultimi, i più rilevanti.
Ed anche se oggi c’è (purtroppo) una grande domanda di lavoro e ci sono molti canali di recruitment (compresi i portali web) non è facile individuare il candidato adatto: ecco un’altra utilità pratica degli assessment e dei job profile ‘ideali’.
E poi, come utilizzate i colloqui di selezione per comprendere anche ‘come viene vista la vostra azienda’ nella comunità locale? E una volta scelto il candidato, come impostate la sua entrata in azienda, con quale percorso evolutivo?
Le aziende, come ogni organismo umano, vivono fasi e crisi di sviluppo: in ciascuna di queste fasi le esigenze organizzative sono parzialmente diverse e perciò le competenze necessarie diventano diverse.
In conclusione, una People Policy resta indispensabile.
Note:
1) v. Harvard Business Review n.4/2013 : ‘Imparate a gestire il crowdsourcing’. Sull’evoluzione del management v. ancora Harvard Business Review (ed. ital) n.11/2011 : La buona azienda); n.10/2012 : Il senso dei valori: passato, presente e futuro e n.6/2012 (Il grande salto: come i manager diventano leader).
2) sul Diversity management vedi l’interessante articolo su Economia & Management n.5/2012
Tratto da www.baldassi.it