Esistono tante modalità di interpretare il ruolo del manager : corsi e libri di management
o scuole di pensiero che confondono la leadership con il management,
hanno supportato la pratica di molti che ricoprono ruoli di responsabilità
che basti usare il buon senso per gestire persone, per “creare spirito di appartenenza” o
un team affiatato con collaboratori motivati.
Per quanto la logica possa confermare che se ho un gruppo di collaboratori compatto e motivato, lavorerà e produrrà probabilmente più di un’accozzaglia di impiegati che cercano di sbarcare il lunario alla meno peggio, nella realtà dei fatti le ricerche consolidano i dati statistici e cioè che la squadra, così come la motivazione, si ottengono attraverso i risultati sul campo: sono cioè la bandiera a scacchi del lavoro, non la linea di partenza; possono essere il moltiplicatore di risultati consolidati, mai l’innesto.
Ma non basta: chiunque abbia cercato di infondere motivazione e senso di appartenenza partendo dal coinvolgimento, dalla gita aziendale, dalla condivisione delle informazioni o da un ricco sistema incentivante, si è scontrato ben presto con la realtà dei fatti, con la sensazione del fallimento, dello sforzo inefficace.
Molti di noi sono cresciuti in un contesto culturale in cui a scuola si premiava l’impegno, anziché il risultato, in cui ci si giustificava con le ore di studio invece di lasciar parlare la pagella, in cui ce la si prendeva con l’arbitro anziché con le proprie gambe e le ore di allenamento che portavano addosso; questa cultura in cui impegno e risultato, motivazione e produttività sono stati scollegati, ha contribuito a generare un’interpretazione del ruolo del manager come quella di un buon padre di famiglia che amministra, anziché gestire, che insegue il modello della famiglia felice anziché la realizzazione di un percorso di studi e di un progetto professionale: cerchiamo la felicità ma non sappiamo con quali strumenti questa vada costruita in azienda e quali siano i tratti che la contraddistinguono per poterla riconoscere.
Abbiamo perso di vista il ruolo di guida che deve avere chi gestisce, la fermezza con la quale vanno individuate, comunicate e fatte rispettare le regole, l’autorevolezza data dalla competenza, necessaria per poter ispirare chi guidiamo e la durezza di cuore alla quale non possiamo sottrarci quando i risultati che perseguiamo e che mantengono in piedi il gruppo di cui siamo responsabili richiedono decisioni difficili: la ponderatezza non può essere buonismo, l’equità non può essere livellamento, il coinvolgimento non può essere democrazia, la responsabilità che il ruolo assegna non prevede una pausa in cui demandare ad altri le decisioni difficili, le valutazioni dei collaboratori, la verifica sull’operato.
Chiunque gestisca risorse, guida delle persone che hanno accettato di delegare ad altri la scelta della modalità in cui ottenere risultati: si sono messe una benda sugli occhi e hanno deciso che la competenza, le capacità e l’esperienza di chi li guida è più efficace del loro bagaglio professionale. I risultati che il manager chiede ai propri collaboratori sono l’esito finale di un percorso che traccia e deve tracciare egli stesso, di cui si assume la piena responsabilità e che deve portare avanti con coraggio.
Serve cuore per avere la generosità di riconoscere e premiare il merito dei collaboratori quando il gruppo festeggia i risultati attesi e inseguiti da tempo ma serve anche coraggio nelle decisioni difficili, nel mettersi alla testa di un sentiero nuovo e sconosciuto, nel fare il primo passo verso un cambiamento che nessuno farebbe da solo.