Intervista ad Alberto Signori – Chief HR & Organization Officer di Brembo.
La pandemia ha davvero cambiato le aziende e le persone?
Brembo, con quartier generale a Bergamo, ha vissuto molto da vicino la pandemia. E gli effetti che questa ha avuto sul modo di lavorare, così come sul lavoro in senso ancora più ampio. Da una parte, perché il nostro territorio è stato uno degli epicentri del Covid-19. Continuando a essere un’azienda dal cuore manifatturiero, infatti, il lavoro ibrido è diventato da marzo 2020 la nuova quotidianità per la maggior parte degli impiegati, facendoci riflettere da subito come il lavoro da remoto non si traduca automaticamente in “smart” e “agile”. Dall’altra, perché l’azienda ha da sempre considerato cruciale la funzione HR, intendendolo come luogo preposto non solo alla gestione di persone e organizzazione in tempi “ordinari”, ma anche al continuo ripensamento e alla valorizzazione più strategica sia delle persone, sia dell’organizzazione e, insieme, del loro potenziale. Un ruolo privilegiato, dunque per osservare e riprogettare modelli, processi e competenze. E quindi, al passo con i tempi, per fare i conti con le nuove forme che il lavoro prende via via.
Indubbiamente lo smart working forzato ha da un lato fatto perdere, con il contatto fisico, anche le opportunità generate dalla coesistenza di più persone nello stesso luogo e nello stesso tempo. Da un altro ha moltiplicato le occasioni di contatto e scambio tra persone, processi e organizzazioni, in luoghi diversi, allargando a dismisura il tempo occupato dal lavoro. Ciò ha in qualche modo stravolto il modo in cui – su un piano cognitivo – siamo sempre stati abituati a elaborare le informazioni e a restituire output. Ma ciò che sin da subito ci è stato evidente è come, anche su un piano simbolico, le relazioni tra persone ed enti – ma anche le azioni e i processi garantiti da ognuno di noi – cambiassero ampiezza, portata ed equilibri.
Che ruolo ha HR in questa trasformazione?
Ho difficoltà a non dire centrale. Ma c’è anche qualcosa di più. Negli anni, come famiglia professionale e a prescindere dai rispettivi business di appartenenza, abbiamo dato spazio, e applicato, modelli HR basati sulla business partnership e ci siamo accreditati come funzione di ascolto, guida e abilitazione al business stesso. Oggi è sempre più forte il bisogno non solo di allearci con il business ma – letteralmente – di entrarci dentro. Capire in dettaglio le sue dinamiche e le sue sfide, anche dal punto di vista tecnico. Che si tratti di un mercato come l’automotive, ma non solo. Riusciamo a incidere non solo sul presente ma anche sul futuro delle organizzazioni in cui lavoriamo, non presentandoci come tuttologi, ma come una funzione credibile e robusta sul fronte degli strumenti e delle metodologie che gli sono propri, uscendo dalle fortezze dei nostri processi e penetrando nel bel mezzo di processi più specifici, di bisogni emergenti dei mercati e delle risposte tecnologiche. Entrare nel business è, ai miei occhi, qualcosa di più sia della business partnership, sia di un generale business acumen. E non è un trend da prevenire, quanto un bisogno già ampiamente conclamato, accelerato ancor di più dagli effetti che la pandemia (e quello che si è manifestato contestualmente: materie prime, chip shortage e, da ultima, la guerra) in questo periodo ha avuto su economia globale e mercati. Il rischio è che nelle nostre aree, il ruolo di HR business partner possa rimanere indietro rispetto allo sviluppo vero dei bisogni dell’organizzazione.
Se poi spostiamo la nostra osservazione dalla gestione HR e dal suo ruolo principe e ci concentriamo di nuovo sulla funzione HR nella sua interezza, dobbiamo dirci che a fronte dei cambiamenti repentini che hanno preso forma negli ultimi anni, abbiamo come responsabilità – più di prima – quella di interpretare e organizzare segni e simboli dell’organizzazione, mettendoli a sistema. Questa sfida sul piano simbolico richiede competenze molto ampie, certo. Anche perché leggere i segni non vuol dire essere un cartomante… ma cogliere segnali deboli, associarli ai più profondi significati. Tradurre il purpose in comportamenti individuali e organizzativi e in relazioni gli uni con gli altri in un tessuto, appunto, simbolico.
Ricerca e lavoro su segni e significati: non rischia di moltiplicare dati e informazioni?
In alcuni casi stiamo assistendo a un overload informativo e conoscitivo che rischia, se mal gestito, di appesantire a vuoto processi cognitivi, realizzativi, relazionali e strategici. Ma è un fenomeno inarrestabile.
Dovremmo incominciare a parlare più che di Big Data di Too-much Data?
Non credo. Il lavoro di HR è anche quello di passare dai segnali deboli – che spesso anticipano il futuro che verrà – a significati e insight. Affrontare il futuro, leggendo passato e presente. Anche sul piano simbolico, appunto.
Possiamo quindi rifarci alla competenza molto cara a Steve Jobs – l’arte di intuire e “connettere i punti” – che rappresenta uno specifico modo di ragionare: l’abduzione?
Certo. Mentre il tema di overload di dati per me porta la riflessione altrove. I Big Data sono non solo un “fenomeno” di moda ma un vero e proprio… dato di fatto, incontrovertibile. Rappresentano al tempo stesso uno strumento, lo sviluppo applicativo di know-how tecnico-specialistico, una prospettiva per conquistare nuove fette di mercato, ma anche una sfida cui rispondere con competenze e mindset allineati. Non solo per chi presidia direttamente la gestione e l’analisi di questi enormi volumi di dati, ma anche per le altre persone nell’organizzazione che con gli specialisti della Data Science devono interagire, fornir loro input e decodificare i loro output facendone tesoro.
Quali sono i possibili rischi per la funzione HR in un futuro prossimo?
Ogni cambiamento si porta dietro dei rischi. Io vedo rischi di collusione e sbilanciamento verso il “fuori”. Mi spiego. In primo luogo, dal punto di vista del rinnovamento della famiglia professionale, se non facciamo evolvere velocemente e in maniera critica i ruoli di HRBP, non affronteremo in maniera efficace il rischio di collusione che esiste per ogni funzione centrale nel gestire i propri clienti interni.
In un secondo momento, è anche vero che alcune delle direzioni HR negli anni si sono impoverite di know-how professionale, trasformandosi talvolta in mere centrali di acquisto della consulenza. È proprio questo che prefiguravo come rischio da evitare parlando di “entrare nel business” pur mantenendo la separazione dei ruoli e non colludendo con il cliente interno. “Dentro” è una parola che ritengo chiave nello sviluppo dell’HR come funzione, quando spesso il “fuori” – che rimane importante, certo, per confrontarci con gli altri, comunicare con tutti gli stakeholder, studiare, intercettare macro-trend, dinamiche sociodemografiche e avvenimenti geo-politici – mi sembra che sia diventato preponderante per popolare i sempre più demanding social media che di news e post hanno un bisogno continuo. Il rischio che vedo qui è che oltre a diventare centrali di acquisto, rischiamo anche di diventare (solo) social media manager.
Servono allora competenze specifiche per la nuova stagione del mondo HR?
Serve competenza più che tante, diverse, nuove competenze. Del “dentro” abbiamo già parlato. Ma per bilanciare con strategicità il rischio di perderci nei dettagli del “dentro” abbiamo bisogno anche di cogliere altre suggestioni. Pensiamo infatti anche alla storiografia. Qui, i francesi des Annales hanno valorizzato più di altre i vari tempi della storia, in particolare la longue durée. Ecco, anche nelle organizzazioni dobbiamo fare nostra l’importanza della lettura del contesto che tenga presente non solo gli avvenimenti del breve termine, ma anche le prospettive più lunghe e alte. Così si contrasta il crescente tatticismo tipico dello sguardo a breve, della reazione istintiva che, oltretutto, può tendere a rafforzarsi in tempi di crisi o di turbolenze. Quell’approccio emergenziale che vuole spegnere l’incendio senza domandarsi troppo perché sia scoppiato.
Fernand Braudel – nell’introduzione ai suoi studi sul Mediterraneo – ci ricordava che non basta leggere la realtà come storia di piccoli avvenimenti o come lenta evoluzione sociale (nel nostro caso diremmo economica e tecnologica), ma dobbiamo comprendere anche la storia geologica e “geografica” – le ere. Dobbiamo cioè comprendere anche la très longue durée… le onde lunghe che trasformano la storia. La storia del mondo, come quella delle organizzazioni. Nel business, i temi del clima e dell’energia, ad esempio, sono ambiti in cui le decisioni dell’oggi devono avere chiara anche questa prospettiva temporale. È solo così che buzzword prendono un significato reale e diventano strumenti per garantire la sostenibilità vera e di lungo termine delle organizzazioni.
(tratto da HBR del Marzo 2022)