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Il management è l’arte di prendere decisioni sulla base di informazioni insufficienti. (Roy Rowan)

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Il management è l’arte di
prendere decisioni
sulla base di informazioni
insufficienti. (Roy Rowan)

Ipercomplessità ed etica

Piero Dominici, docente universitario e formatore, esperto di comunicazione e organizzazioni complesse, si occupa di complessità e teoria dei sistemi.

di Salvatore Dimaggio

SD: Lei ha a lungo studiato il tema della gestione della complessità e dei suoi riflessi sull’etica e sulla produttività. A quali conclusioni l’ha condotta la sua ricerca?
Alcune considerazioni preliminari si impongono per lo sviluppo della nostra riflessione che, evidentemente, non potrà in alcun modo risultare esaustiva ma – si spera – foriera di spunti e stimoli.

Considerata la complessità e il legame esistente tra i differenti piani di discorso, proverò a sintetizzare i ragionamenti in punti problematici. Una scelta che mi auguro possa contribuire alla chiarezza ed alla semplificazione di questioni che sono tutt’altro che semplici e banali, come alcuni “superesperti” o “guru” vorrebbero far credere. Nel quadro generale di un ripensamento complessivo del rapporto tra teoria e ricerca, tra teoria e prassi (si alimentano vicendevolmente), credo non si possa non prendere atto di come la complessità, l’ambivalenza e la rapidità del mutamento in atto abbiano evidenziato, senza margini di discussione, l’urgenza di (quanto meno) ripensare il paradigma (1996) e le stesse categorie concettuali con le quali abbiamo definito e interpretato la realtà fino ad oggi. La complessità sociale e organizzativa, pur nella sua particolarità, costituisce sempre un problema di conoscenza e di gestione della conoscenza (Dominici 2003, 2011), di possibilità conoscitive che possono essere effettivamente selezionate e realizzate – mi viene in mente anche la weberiana sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo. Il dato di fatto è che non siamo pronti ad affrontare le sfide della complessità e del nuovo ecosistema, non tanto in termini di metodologia/e della ricerca (e di strumenti di rilevazione, sempre più affinati), quanto di modelli teorico interpretativi che devono guidare/orientare l’osservazione empirica, non soltanto scientifica, di fenomeni e processi. Ma servono educazione e formazione alla complessità e una rinnovata consapevolezza rispetto all’esigenza di un approccio multidisciplinare a questa stessa complessità che implica – come ho avuto modo di argomentare in tempi non sospetti – una ridefinizione dello spazio dei saperi e il ribaltamento di quelle logiche di potere e controllo che, a tutti i livelli, ne hanno sancito la parcellizzazione e reclusione dentro gli angusti confini delle discipline; discipline sempre più isolate e incapaci di comunicare tra di loro, con profonde implicazione anche per l’esterno delle torri d’avorio; separazioni/steccati disciplinari – si pensi all’annosa e, per certi versi, incredibile distinzione tra discipline umanistiche e materie scientifiche, tra formazione umanistica e formazione scientifica (uno dei motivi del nostro ritardo culturale che tanti danni produce ancora) – che, non soltanto ostacolano l’osservazione e la comprensione della realtà (a livello sociale e delle organizzazioni complesse), la produzione sociale e la condivisione della conoscenza (architrave del nuovo ecosistema), ma si rivelano anche non in grado di restituire quello sguardo d’insieme e quell’ottica globale che gli attuali processi sociali, politici, culturali richiedono costantemente. In tal senso, continuo ad esser convinto, e su questo approccio ho sviluppato le mie ricerche, che l’innovazione tecnologica costituisca da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma che questa, se non supportata da unacultura della complessità e da politiche di lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale (centralità strategica di scuola, istruzione, università), si riveli sempre una straordinaria opportunità per pochi e/o, per meglio dire, per élite più o meno illuminate. Da questo punto di vista, per ciò che concerne quella che ho definito la “società interconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle procedure e dei sistemi non possono essere garantite dalla tecnologia in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono (e saranno) sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse. Come scrissi anni fa: ripensare i saperi e lo spazio relazionale, creare le condizioni necessarie per il cambio di paradigma (1996) e l’affermazione di quell’approccio multidisciplinare, tante volte invocato e altrettante completamente disatteso. Temi e questioni di vitale importanza che non riguardano più soltanto le comunità scientifiche e che devono essere portare fuori dalle torri d’avorio: non soltanto perché la sfera pubblica globale preme (si pensi alle questionidell’accesso, della trasparenza e, più in generale, dell’openness), ma anche e soprattutto perché essa è decisiva per modificare in profondità la consapevolezza, la percezione e l’accettabilità/legittimazione sociale di questi fenomeni e dinamiche.
Dopo questa premessa necessaria, riassumo per punti, quelle che – a mio avviso – sono “variabili” complesse con le quali siamo costretti a fare i conti: A) La (iper)complessità del contesto:
Sistemi e organizzazioni complesse devono sempre più confrontarsi e interagire con ecosistemi caotici e disordinati ma sempre più interdipendenti e interconnessi, che attraversano un’ulteriore fase (critica) di evoluzione – non lineare – per differenziazione segnata dall’avvento dell’economiainterconnessa dell’immateriale (Dominici): un tipo di economia e di contesto storico-sociale – che ho definito Società Ipercomplessa (2003-05) – che, al di là delle resistenze, soprattutto di tipo culturale, stanno costringendo sempre più i sistemi organizzativi a configurare nuovi modelli e strategie uniformandosi, almeno in termini di etichetta, ai principi della trasparenza e dell’accesso e, più in generale, dell’openness e della condivisione della conoscenza. In tal senso, la comunicazione (non soltanto quella organizzativa), da “semplice” strumento di manipolazione, persuasione (più o meno occulta e responsabile), promozione, reputazione, consenso e costruzione di una visibilità (paradossalmente) fine a sé stessa, è destinata progressivamente a diventare e, soprattutto, ad essere riconosciuta come vero e proprio vettore di trasparenza, accesso, servizio, condivisione, riduzione della complessità. In altre parole, fattore strategico di efficienza e non soltanto per l’immagine e/o la reputazione, il consenso o la vendita.
La comunicazione così intesa – e, peraltro, da sempre definita “processo sociale di condivisione della conoscenza = potere” (Dominici, 1996 e sgg.) – richiede una “nuova cultura della comunicazione” costruita sui destinatari, di più…costruita/elaborata con i destinatari (esclusione vs. inclusione), oltre che basata sulla valutazione (che non significa, solo e soltanto, dati e statistiche); una “nuova cultura della comunicazione” che implica necessariamente, non soltanto un ripensamento radicale delle stesse categorie concettuali di Persona, libertà, dignità, cittadinanza (su cui ci mi sono espresso in tempi non sospetti, 1998 e sgg.), ma anche, e soprattutto, la ridefinizione di modelli organizzativi (comunicazione è organizzazione, complessità, ecosistema) sempre più funzionali alla collaborazione, alla cooperazione ed alla co-gestione; modelli antitetici a quelli tradizionali, fondati su gerarchia e centralizzazione dei processi decisionali e conoscitivi. Tuttavia, affinché ciò accada (in ogni caso, nel lungo periodo), è necessario che cambino le mentalità e le culture organizzative, sia nel pubblico che nel settore privato (educare e formare alla complessità). Quelle stesse culture organizzative che, spesso, provano a rallentare, quasi a frenare, la rapidità del mutamento in atto soprattutto perché non preparate ed adeguatamente formate a metabolizzare l’innovazione e il cambiamento. E non dobbiamo mai dimenticare che le organizzazioni, le istituzioni, la stessa società cercano sempre di mantenere l’ordine, la stabilità, l’equilibrio ma, per innovare concretamente e innescare dinamiche evolutive, occorre avere anche il coraggio (oltre, evidentemente, alle competenze) di mettere in discussione tali condizioni/certezze raggiunte, anche se rassicuranti per tutti. La formazione continua (dico sempre: strumento complesso di comunicazione interna) è strategica anche in tal senso e si configura come “il” dispositivo in grado di mediare le molteplici forme e modalità del conflitto organizzativo e sociale. Perché, come ribadito anche in tempi non sospetti, i processi di innovazione e cambiamento “camminano sempre sulle gambe delle persone”.
Non esistono normative, sistemi, procedure ideali in grado di garantire, comunque e sempre, efficienza, efficacia, controllo (totale), produttività, correttezza e, soprattutto, rispetto di leggi e norme culturali condivise: ciò che conta è sempre la loro traduzione operativa e applicazione.
La digitalizzazione e le norme giuridiche (rischio di interpretazioni, e soluzioni, riduzionistiche è alto) possono senz’altro fornire un contributo importante, per non dire decisivo, ma da sole non sono sufficienti per ridurre la complessità (efficienza, efficacia, produttività, clima organizzativo, sicurezza, corruzione etc.) e gestire l’instabilità delle organizzazioni, dei sistemi sociali e dei relativi flussi (materiali e immateriali). Ancora una volta, la centralità dev’essere posta sulla Persona, sulla qualità delle relazioni, sul capitale umano e sul benessere organizzativo, su asimmetrie e competenze ma anche, e soprattutto, sulla questione (ir)responsabilità (2009). In altre parole, sulla “vera” complessità dei sistemi organizzativi, un tipo di complessità che, pur caratterizzata da numerose “parti” interdipendenti, si rivela difficilmente misurabile/quantificabile, sia per la numerosità delle variabili intervenienti che per l’imprevedibilità connaturata ai sistemi stessi (cfr. anche il concetto dirazionalità limitata, su cui abbiamo lavorato molto).
B) La centralità strategica della comunicazione e l’esigenza di una nuova “cultura della comunicazione”
L’accresciuta complessità dei sistemi e il loro differenziarsi, in maniera spesso autonoma e caotica, generano nuovi bisogni comunicativi, formativi, organizzativi. La comunicazione non è un “qualcosa” che può arrivare a valledei processi e delle dinamiche, perché la comunicazione si identifica in quegli stessi processi e in quelle stesse dinamiche. A tal proposito, in passato ho parlato di “comunicazione del fare” (vs. la “comunicazione del dire”) e del “potere comunicativo dell’efficienza”, sia a livello di relazioni interpersonali che di interazioni sistemiche e/o organizzative. Per queste ragioni, ho proposto la formula “comunicazione è organizzazione” (1998,2003 e sgg.), ma manca ancora una consapevolezza diffusa delle implicazioni anche soltanto di un’affermazione di questo genere; inoltre, in comunicazione (organizzazione) non si improvvisa e il problema delle competenze (non soltanto dei comunicatori, ma più in generale dei manager/dirigenti e dei dipendenti) è talmente evidente da richiedere – come abbiamo evidenziato più e più volte – una ridefinizione anche dei tradizionali percorsi didattico-formativi, più specificamente di quelli relativi all’organizzazione della prassi sociale, della vita pubblica e organizzativa. Percorsi che, da anni, sono sempre più schiacciati (nella migliore delle ipotesi) su una formazione esclusivamente “tecnica”, definita e realizzata sulla base di modelli interpretativi lineari non più adeguati all’ipercomplessità.
D’altra parte, efficienza ed efficacia vengono messe sempre più a dura prova, proprio da quel famoso cambiamento di paradigma che, pur essendo nominato e discusso da tutti, oltre a non essere stato ancora compreso e metabolizzato, finisce per essere inscritto, nel dibattito pubblico, all’interno di un nuovismo acritico di maniera che impedisce un pensiero “altro” sull’innovazione.
C) La complessità delle organizzazioni e dei sistemi sociali
Quella riguardante i sistemi sociali e organizzativi è, peraltro, un tipo di complessità del tutto particolare e difficilmente riducibile: in ogni caso, una complessità non riconducibile alla sola applicazione di formule matematiche e dati (fondamentali, chiariamolo) inquadrabili dentro un “oggettivismo scientifico” che torna egemone e contribuisce anch’esso ad alimentare un certo tipo di conformismo. Dicevo: una complessità particolarmente complessa – mi scuso per il gioco di parole – in quanto chi la osserva (studia e analizza) e tenta di comprenderla è allo stesso tempo osservato; costantemente contamina e viene contaminato dall’ambiente e dal sistema di relazioni; costantemente co-genera e co-produce i processi di cui è protagonista (elaborazione di informazioni e condivisione di conoscenza) e, nel far questo, non si adatta soltanto all’ambiente di riferimento e/o all’ecosistema ma lo trasforma. Ripenso al vecchio, ma fondamentale, concetto di “osservazione partecipante” e partecipata; uno dei tanti concetti della ricerca sociale definiti, e operazionalizzati, molto tempo fa e oggi recuperati in tutti i settori della ricerca e della prassi organizzativa. L’osservazione (partecipante e partecipata) dei sistemi sociali e organizzativi ci costringe a fare i conti con l’attivazione di tutta una serie di fattori di condizionamento che modificano, non soltanto la percezione, ma anche le condizioni empiriche dell’evento osservato e perfino l’atto stesso dell’osservare (sia nella ricerca scientifica che nella gestione delle organizzazioni complesse). Oltretutto, occorre considerare che tali dinamiche, oltre a manifestarsi sempre in chiave sistemica (ecco l’importanza di un approccio multidisciplinare e alla complessità) e ad essere caratterizzate dal venir meno del principio di causalità (A -> B — valore probabilistico e statistico delle conoscenze), si evolvono dentro un sistema di conoscenze sociali preesistenti.
Sembra scontato dirlo – non è così, anzi spesso si ha l’impressione che non ci sia sufficiente consapevolezza – ma la stessa conoscenza scientifica, come qualsiasi attività di ricerca e innovazione, si sviluppa dentro contesti storico-culturali determinati che sono essi stessi “fattori” di condizionamento…si pensi, tra le questioni, alla weberiana impossibilità di una conoscenza realmente avalutativa della realtà. Eppure è ancora molto diffusa la convinzione che formazione umanistica e scientifica possano/debbano essere tenute separate.
E dobbiamo sempre considerare che, quando parliamo di “sistemi complessi”, ci stiamo riferendo a sistemi costituiti da molteplici elementi e variabili, a loro volta caratterizzati da legami (non facilmente riconoscibili) e complessi processi di retroazione, che non è possibile osservare isolandoli dal contesto di riferimento. Le parti, che costituiscono i sistemi complessi, sono sempre strettamente interdipendenti ma non è mai così semplice individuarne i legami e le correlazioni. Questo perché siamo quasi sempre di fronte a dinamiche instabili, che rendono inefficace qualsiasi spiegazione deterministica e riduzionistica. Allo stesso tempo, esistono differenti livelli di descrizione che richiedono lessico e codici adeguati e pertinenti.
La questione cruciale della “razionalità limitata”
Parto da due presupposti che considero fondamentali: 1) gli attori sociali producendo conoscenza non si limitano ad adattarsi all’ambiente (sociale e/o organizzativo), bensì contribuiscono a modificarlo e co-generarlo; 2) qualsiasi tipo di organizzazione si fonda su processi, cioè su insiemi di attività fra loro logicamente interconnesse che si identificano sostanzialmente con la gestione, efficiente ed efficace, dei flussi informativi e conoscitivi.
Tuttavia, nonostante la notevole disponibilità di dati, informazioni e (talvolta) conoscenze, i sistemi organizzativi si basano sempre su una RAZIONALITÀ LIMITATA che è dovuta ad una serie di “variabili” determinanti:

  • Conoscenza sempre parziale della “catena mezzi-fini”
  • Conoscenza limitata delle alternative – ruolo delle convinzioni preesistenti nelle scelte/decisioni – l’analisi complessiva richiede costi eccessivi
  • Distinzione non chiara tra “mezzi” e “fini”
  • Impossibilità di conoscere tutte le conseguenze delle scelte (problema di ragionevolezza di tempi e costi)
  • Distorsioni nei feedback
  • Le decisioni sono quasi sempre del “gruppo” e sono correlate a processi di cooperazione/competizione/conflitto
  • Presenza di molteplici livelli di ambiguità

L’organizzazione, come detto, può essere definita come un SISTEMA SOCIALE APERTO* – basato su un processo di interazione tra le parti – in cui la conoscenza dell’ambiente (stakeholders, dati, informazioni etc.) è decisiva per adattarsi al cambiamento, gestirlo e non “esserne gestiti”. Allo stesso tempo, la creazione di una cultura organizzativa si configura come l’asset strategico che consente la definizione di risposte efficaci all’imprevedibilità e alla vulnerabilità connaturate ai sistemi stessi, oltre che ai rischi potenziali e reali provenienti dall’ambiente.
D’altra parte, siamo di fronte ad un “… sistema adattivo di componenti fisiche, personali e sociali che sono tenute insieme da una rete di comunicazioni interpersonali e dalla volontà dei suoi membri di cooperare per il raggiungimento di un fine comune” (H.A.Simon,1947)
All’interno di tale complessità, l’attore sociale non è in grado di darsi una raffigurazione completa della realtà, né di conoscere tutti gli obiettivi possibili delle sue azioni; né infine di darsi una rappresentazione di tutti i mezzi possibili per raggiungerli o delle conseguenze di ciascuna azione.
La condizione di razionalità limitata è determinata dalle seguenti “variabili”:

  • complessità dell’ambiente
  • incapacità dell’attore sociale di raccogliere, elaborare e memorizzare tutte le informazioni necessarie
  • impossibilità di prevedere fino in fondo le strategie degli altri

Accade così che le informazioni utili per la soluzione dei problemi siano sempre incomplete e confuse con una grande quantità di dati inutili. Un problema che rischia di radicalizzarsi ulteriormente nella società interconnessa: la vera sfida – soggetta ad una serie di limitazioni – si conferma quella legata alla possibilità di trasformare le informazioni, che consentono l’interpretazione e l’azione sull’ambiente, in conoscenza. SD: Quali sono i principi guida che debbono ispirare un management che voglia evitare di bloccare tali processi?
Provo a rispondere al suo quesito, indicando una serie di punti che considero particolarmente significativi:

  • Le organizzazioni devono configurarsi come sistemi sociali aperti
  • Centralità strategica della comunicazione (che non va confusa con il marketing!), intesa come “processo sociale di condivisione della conoscenza (=potere)”, in cui giocano un ruolo assolutamente decisivoprofili psicologici, contesti socioculturali di origine, competenze, asimmetrie informative e conoscitive, qualità delle relazioni e dello spazio relazionale, gestione della conoscenza etc. La comunicazione, permettendo la condivisione delle risorse informative e conoscitive, è il vero “valore aggiunto” delle organizzazioni e dei sistemi dal momento che rende possibile:

a) RIDUZIONE della COMPLESSITÀ (ma, ormai, parliamo di IPERCOMPLESSITÀ)
b) GESTIONE dell’INCERTEZZA/RISCHIO – ruolo strategico per le imprese del risk management e del crisis management
c) MEDIAZIONE del CONFLITTO – fuori dal sistema: problema del controllo e accesso alle risorse (Knowledge Society); dentro il sistema: problematiche legate all’accesso, gestione, elaborazione, conservazione e condivisione delle conoscenze e delle competenze (knowledge management).

  • Comunicazione è organizzazione. Come accennato in precedenza, i sistemi sociali e le organizzazioni complesse – sistemi adattivi caratterizzati da connessioni non lineari e da una notevole varietà di elementi e connessioni – si evolvono per differenziazione non linearee/o, a certi livelli di complessità, per autopoiesi: questo aumento di complessità genera nuove esigenze comunicative che, a loro volta, definiscono nuovi bisogni organizzativi. La capacità di elaborare e condividere informazioni è fondamentale per l’adattamento all’ambiente e gli eventuali tentativi di trasformarlo. Mi ripeto: lacondivisione delle informazioni e della conoscenza si rivela di vitale importanza (ho affrontato tali questioni già nella mia tesi di laurea, per poi approfondirle ulteriormente nel corso del dottorato di ricerca, all’interno del quale ho avuto la fortuna di approfondire tali percorsi di ricerca con studiosi/intellettuali come Franco Ferrarotti ed Edgar Morin). È sulla base di questi presupposti, e delle relative ricerche, che affondano le radici negli studi multidisciplinari sulla complessità e nella teoria dei sistemi, che ho potuto affermare – in tempi non sospetti – comunicazione è organizzazione: non si tratta di dimensioni separate (anzi!) anche se, per certi versi, sembrano quasi richiamare la vecchia dicotomia marxiana tra struttura e sovrastruttura. L’efficienza di un sistema organizzativo è strettamente correlata alla condivisione delle informazioni e delle competenze e costituisce la “forma” più potente di comunicazioneche un’organizzazione possa mettere in atto, sia verso l’esterno che all’interno della stessa.
  • Gestione efficiente dei processi e dei canali di comunicazione(processo sociale di condivisione della conoscenza): i “canali” di comunicazione devono essere conosciuti e accessibili a tutte/i
  • Knowledge Management
  • Leadership autorevole e non autoritaria
  • Centralità del capitale umano
  • Centralità del capitale sociale
  • Rilevanza strategica del clima organizzativo e del benessere organizzativo
  • Formazione e aggiornamento continuo: a mio avviso, mi ripeto, il vero “valore aggiunto”, il fattore in grado di determinare un “vantaggio competitivo” di lungo periodo; eppure, nelle maggior parte dei casi, continua ad essere la prima voce tagliata. Paghiamo un ritardo culturale, anche su tali questioni, che è difficile da recuperare e che è fortemente indicativo di un modo di pensare e organizzare, non soltanto il lavoro e le organizzazioni, ma anche le relazioni sociali e la vita pubblica.

Appare evidente come tali “variabili” strategiche possano essere sviluppate solo a condizione che, soprattutto attraverso la definizione e condivisione di una cultura organizzativa, si punti concretamente a riscostruire le reti e i meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione che costituiscono il “collante sociale” di una comunità (idealtipo, per tanti versi, ideale anche a livello organizzativo).

SD: Quali sono, nella sua esperienza, i principali competitive edge, di un’azienda in grado di assecondare o anche incoraggiare l’osmosi?
Il presupposto fondamentale da cui muove la nostra riflessione è il seguente: le organizzazioni sociali sono e vanno pensate/realizzate come “sistemi sociali aperti”, all’interno dei quali si rivela di vitale importanza individuare quelle competenze distintive in grado di determinare/costruire vantaggi competitivi. In tal senso, continuo a credere che il capitale umano, la formazione e l’aggiornamento continuo siano quelle più determinanti.
Come scritto più volte anche in passato: la società della conoscenza spinge le organizzazioni complesse a configurarsi come “sistemi sociali aperti” che tentano di governare l’incerto e l’imprevedibile attraverso la condivisione di una cultura organizzativa e progettuale, definita ed elaborata all’interno di quelle reti relazionali intersoggettive esistenti “dentro” i sistemi organizzativi, ma che sono in un rapporto di osmosi anche con l’ambiente esterno, e soprattutto con riferimento ai flussi informativi e conoscitivi (questioni che intercettano il dibattito riguardante i temi dell’inclusione edell’open innovation). Anche nel caso delle organizzazioni (sia semplici che complesse), la cultura – intesa come insieme di valori, pratiche, credenze, conoscenze, simboli, modelli condivisi da un gruppo/comunità – assolve – esattamente come per i sistemi sociali e le comunità – delle funzioni assolutamente strategiche: dal controllo sociale alla definizione di (indispensabili) condizioni di prevedibilità dei comportamenti (p.e. il ruolo è “dispositivo” che assolve queste funzioni, definendo aspettative e responsabilità dentro le reti di relazione sociale), dall’accettazione alla condivisone di un sistema di valori, dall’accettazione alla condivisione di obiettivi (accettazione e condivisione sono “oggetti” e processi differenti) etc. Si tratta davvero di un (necessario) cambio di paradigma culturale (Dominici,1996) che, oltre a coinvolgere modelli organizzativi e strategie di azione, riguarda da vicino la qualità delle relazioni sociali e, nello specifico, le persone (e la questione della responsabilità) con il loro sapere, le loro competenze ma anche i loro vissuti sociali. La conoscenza sociale e relazionale (concetto di intersoggettività), prodotta sempre da un NOI, viene ulteriormente elaborata (e condivisa) nell’incontro/confronto con l’Altro (persone, colleghi, utenti, clienti, cittadini, consumatori etc.), qualunque sia la situazione/contesto. Vengono così a determinarsi, e in maniera quasi del tutto autonoma, “codici” e modelli di relazionalità che possono creare le condizioni ideali per un’innovazione sociale e culturale, in grado di far “metabolizzare” ai sistemi i cambiamenti in atto; allo stesso tempo – e ciò conferma, ancora una volta, l’importanza del clima/benessere organizzativo- si possono anche generare nuove forme e modalità di conflitto causate proprio da una cattiva o, comunque, poco efficiente gestione della conoscenza e delle informazioni (comunicazione-condivisione-cooperazione) che, in ogni caso, può far nascere sottogruppi o subculture all’interno della stessa organizzazione/contesto o, peggio ancora, innescare azioni di resistenza al cambiamento organizzativo, sociale e culturale. La mia definizione/visione di organizzazione come “sistema sociale aperto” presenta pertanto diverse affinità con il concetto e le pratiche di osmosis management.
Per ciò che concerne, nello specifico, le “competenze distintive” va ribadito come, oltre ad essere le variabili in grado di determinare il cd. vantaggio competitivo, siano legate alla capacità di un’organizzazione di utilizzare le risorse per raggiungere gli obiettivi strategici definiti; peraltro, si tratta di variabili e dinamiche sempre più influenzate dalle mutate condizioni dei contesti di riferimento. In tal senso, si potrebbe ragionare su differenti strategie e fare un lungo elenco di elementi in grado di innescare il vantaggio competitivo, ma continuo a credere che il “capitale umano” e la formazione continua siano quelli più decisivi, ancor di più nel lungo periodo. In altre parole, un’organizzazione che intende essere concretamente efficiente, ed estendere nel tempo questa sua efficienza, oltre che puntare su innovazione tecnologica (continua) e fattore giuridico, dovrebbe: 1) valorizzare al massimo le competenze (nel senso più ampio del termine); 2) promuovere la condivisione delle informazioni e della conoscenza; 3) promuovere la collaborazione e la cooperazione; 4) puntare sulla centralità della dimensione sociale e relazionale; 5) puntare su rafforzamento e implementazione delle reti di fiducia; 6) organizzare gli spazi in maniera funzionale ad una cultura organizzativa di questo tipo. Assolutamente strategico – lo ribadisco – saper riconoscere nella “formazione continua” quello strumento complesso in grado (anche) di accompagnare questi processi evolutivi non-lineari e di accrescere la consapevolezza della complessità e della razionalità limitata che caratterizzano i sistemi organizzativi (e quelli sociali)
SD: Alcuni popolari servizi digitali come Google e Wikipedia si sono inseriti ormai fortemente nelle abitudini di information search degli utenti. Tanto da essere percepiti come erogatori di dati sostanzialmente affidabili ed utili e, si assume implicitamente, neutral. Tuttavia, la questione sempre più dibattuta (nel mondo anglofono, da noi pochissimo) del search bias, mette sempre più in discussione la gestione che Google fa di questo potere. Allo stesso tempo la fiducia consolidata nei processi democratici, open ed orizzontali di fact-checking di Wikipedia viene sempre più incrinata dalla minaccia di editor prezzolati che manipolano le voci in modo conforme agli interessi di aziende o gruppi di potere. Quali sfide pone questa situazione e di quali nuovi strumenti abbiamo bisogno per decodificare questi scenari?
La mia risposta ad un interrogativo così delicato potrebbe sembrare riduttiva, ma non è così, quanto meno nelle intenzioni. Le dinamiche, cui si fa riferimento nella domanda, sono praticamente inarrestabili anche nel caso in cui la Politica recuperi un suo ruolo più centrale: quelli che da più parti sono stati definiti i “cannibali digitali”(metafora cara anche a McLuhan) stanno, non da ora, esercitando il loro controllo non soltanto in termini di potere finanziario: la sfida – su cui registro poca consapevolezza, anche da parte di esperti e guru (?) – è quella di creare le condizioni affinché tale potere non si traduca anche in un’egemonia e in una omologazione, di pensiero e cultura, pressoché totali (a mio avviso, tutto ciò è già in atto). Preso, cioè, atto delle caratteristiche dei nuovi ecosistemi sociali (1996) e della ipercomplessità (2000) che li caratterizza, ritengo che la sfida più importante sia, ancora una volta, quella di abilitare le persone, i cittadini (non soltanto nella loro veste di consumatori), a gestire, in maniera quanto più possibile consapevole e competente, i processi e le dinamiche che contraddistinguono il nuovo ecosistema. In altre parole, creare le condizioni “strutturali” affinché sappiano abitaretali ecosistemi, sappiano abitare quello che di fatto è, non soltanto un nuovo spazio pubblico illimitato – in grado di definire identità e soggettività e, potenzialmente, nuove opportunità di inclusione – , ma anche, e soprattutto, un Panopticon globale, all’interno del quale le logiche di controllo e sorveglianza totale erano, sono e saranno sempre quelle dominanti.
E come ripeto da anni: per questa ipercomplessità non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per abitudine culturale; cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali ma, soprattutto, educati e formati alla complessità e al “pensiero critico”; educati e formati a comprendere l’importanza della condivisione e della cooperazione per poter superare concretamente le vecchie logiche di possesso e controllo: perché condivisione e cooperazione sono essenziali nella produzione (sociale e collettiva) di conoscenza e cultura, i veri motori dell’innovazione; e devono essere educati e formati anche al “sapere condiviso”(2000), non tanto perché questi presupposti – a mio avviso strategici, vitali – rappresentano la “nuova utopia” da inseguire, quanto perché – ed è incredibile come, a tutti i livelli, ancora non ci sia consapevolezza e unità d’intenti – sono l’economia della condivisione (1998) e la società della conoscenza a richiedere elevati livelli di istruzione (dati e ricerche su analfabetismo funzionale e povertà educativa restituiscono un quadro tutt’altro che rassicurante, e la cosa che mi fa più impressione è che ne parlavo quasi vent’anni fa…) e formazione, oltre ad un aggiornamento continuo in ambito lavorativo e professionale. A tal proposito, di recente, anche qualche tecno-entusiasta – etichetta per indicare i moderni “integrati” – inizia finalmente a rendersi conto che la questione più complicata da risolvere è quella culturale (e non mi riferisco soltanto al tema del cultural divide) e concerne le asimmetrie informative e conoscitive; al contrario, le infrastrutture che, ripetiamolo, sono assolutamente necessarie e il digital divide, con un piano di investimenti all’altezza, sono criticità significative ma che, prima o poi, avranno una soluzione. In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale profondo sono sempre il prodotto complesso, da una parte, di processi e meccanismi sociali che devono partire dal basso; dall’altra, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate da una politica che ha tolto loro autonomia (qualche anno fa parlai di “sfera pubblica ancella del sistema di potere”). Servono politiche (lungo periodo) che, oltre ad essere immaginate in un’ottica globale, vanno progettate e realizzate con una prospettiva sistemica, per poi essere costantemente valutate e monitorate nei loro effetti. Dimensioni completamente disattese, basti pensare p.e. all’assenza di una “vera” politica industriale nel nostro Paese. L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità: istruzione, educazione, formazione – evidentemente – ne devono essere gli “assi portanti”, non un qualcosa che arriva “a valle” dei processi di mutamento. Altrimenti, serviranno a poco anche le tecnologie più innovative e sofisticate, le piattaforme partecipative e le stesse dinamiche (concretamente) inclusive, attivate da élite (più o meno illuminate), gruppi di potere e da una Pubblica Amministrazione – questa la speranza e l’auspicio – divenuta, nel frattempo, più trasparente ed efficiente. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una cittadinanza/democrazia senza cittadini.
SD: Come giudica il dibattito sui Big Data? La dialettica tra le voci che sollevano dubbi sulla validità scientifica di questo paradigma, sino alla famosa asserzione di Chris Anderson che li vedeva come “the end of theory” e gli autori che ne hanno intensamente studiato le dinamiche e le caratteristiche, a cosa ci ha condotto? Ho la netta sensazione che, anche in questo caso, si tratti di un dibattito ancora distante da quell’analisi metodologicamente rigorosa ed, evidentemente, multidisciplinare di cui avremmo urgente bisogno: anche sui BIG Data tornano gli “apocalittici” e gli “integrati”, tornano tutte quelle argomentazioni aprioristiche che non contemplano posizioni intermedie, magari fondate sull’esperienza e la ricerca. Da una parte coloro che vedono nei Big Data la nuova utopia, dall’altra coloro che vi riconoscono soltanto rischi e pericoli. Ciò che appare evidente sono le enormi potenzialità dei Big Data per ciò che riguarda la ricerca e lo sviluppo tecnologico: la criticità principale è legata al fatto che non abbiamo ancora compreso come tenere insieme queste straordinarie potenzialità con il rispetto di alcuni diritti fondamentali della persona. Notevoli le implicazioni da valutare, oltre che per la ricerca scientifica e il decisore politico, anche per ciò che concerne il quadro di riferimento giuridico. Una cosa è certa: i dati non parlano mai da soli, è il ricercatore a farli parlare, ad attribuirgli uno o più significati sulla base delle correlazioni possibili e di eventuali nessi di causalità. Occorre prestare molta attenzione alle retoriche ed alle narrazioni che puntualmente si sviluppano nel dibattito pubblico e che tendono soltanto a semplificare argomenti che semplici non sono.
Dietro alla questione dei Big Data, torna anche il “vecchio”, ma sempre attuale, tema della razionalità – si tratta sempre di una razionalità limitata – nelle scelte e nelle decisioni, non soltanto a livello organizzativo. Consapevole dell’importanza di avere disponibilità di una quantità infinita di dati e, soprattutto, di essere in grado di analizzarli ed elaborarli con le finalità più differenti, continuo a ritenere cruciali soprattutto lequestioni legate alla capacità di comprendere fino in fondo e organizzare sistematicamente la mole infinita di informazioni contenute in questo tipo di complessità. Tuttavia, la “vera” rivoluzione dei Big Data è legata alle nuove opportunità di analizzarli e tradurne le evidenze in decisioni da prendersi in un tempo ragionevole. Esiste evidentemente un problema cruciale di come riorganizzare i processi automatici di scelta delle notizie e delle informazioni che possono tradursi in conoscenza. Ma, ripeto, le implicazioni di tipo etico sono notevoli: dall’esigenza di controbilanciare il potere delle grandi corporation del digitale alle problematiche riguardanti privacy e protezione dei dati personali; dalla proprietà allo sfruttamento dei dati, dalla trasparenza all’eccesso di controllo. La Società Interconnessa (2014) deve ripartire anche da queste rinnovate consapevolezze.

Piero Dominici

(PhD) Docente universitario e formatore, insegna Comunicazione pubblica e Sociologia della devianza presso l’Università degli studi di Perugia. Membro dell’Albo dei Revisori MIUR, fa parte di Comitati scientifici nazionali e internazionali. Si occupa da vent’anni di teoria dei sistemi e di teoria della complessità con particolare riferimento alle organizzazioni complesse ed alle tematiche riguardanti cittadinanza, democrazia, etica pubblica. Svolge attività di ricerca, formazione e consulenza presso organizzazioni pubbliche e private. Ha partecipato, e tuttora partecipa, a progetti di rilevanza nazionale e internazionale, con funzioni di coordinamento. Relatore a convegni internazionali, collabora con riviste scientifiche e di cultura. Autore di numerosi saggi e pubblicazioni scientifiche, tra le quali: Per un’etica dei new-media (1998); La comunicazione nella società ipercomplessa.Istanze per l’agire comunicativo(2005); La società dell’irresponsabilità (2010); La comunicazione nella società ipercomplessa. Condividere la conoscenza per governare il mutamento (2011); Dentro la Società interconnessa. Prospettive etiche per un nuovo ecosistema della comunicazione (2014).

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