Di Oscar Giannino
Matteo Renzi l’ha spuntata: il Jobs Act alla Camera è passato senza ricorso al voto di fiducia, e ha retto all’uscita dall’aula di tutte le opposizioni e di 29 parlamentari Pd nel tentativo di far mancare il numero legale, e al voto contrario di un’altra pattuglia di dissidenti Pd. Certo, ha avuto solo 316 voti, uno solo in più del necessario per un voto di fiducia a Camera piena, ma per il governo è stata comunque una prova vinta, visto che il voto regionale appena tenutosi ha dato una bella scossa all’intero quadro politico.
Per Renzi, a contare è innanzitutto il fatto che la minoranza nel suo partito debba d’ora in avanti sempre più assumersi la responsabilità di manifestare concretamente la propria opposizione, in nome di un’idea altra e diversa di che cosa sia la sinistra sul lavoro, e di come la sinistra debba fare imprescindibilmente asse con i sindacati. E’ una sfida a viso aperto: al premier va riconosciuto che non si tira indietro. E’ una scelta che mette anche in conto, se l’opposizione interna volesse giungere alla crisi facendo mancare al governo i voti per procedere, che ce la si vedrebbe alle urne. E’ una novità assoluta, nella storia della sinistra di governo italiana.
Che cosa ne verrà di concreto con il Jobs Act alla prostrata economia italiana, è un altro paio di maniche. E’ la quinta riforma del lavoro in 5 anni: viene da dire che a furia di ritocchi al margine, per le imprese non si finisce di studiare gli oneri della riforma precedente che già le regole son cambiate. La sua approvazione – il testo deve ora tornare in Senato, per ratificarne le modifiche – fa parte del ristretto pacchetto di quelle riforme in nome delle quali la Commissione Europea ha ieri promosso con riserva la legge di stabilità italiana, dando appuntamento per una verifica al prossimo marzo. Quanto al merito dei princìpi approvati, in base ai quali bisognerà poi emanare una bella sfilza di decreti delegati attuativi, il giudizio va distinto in quattro parti. C’è ciò di cui più si è parlato, che rivestiva e riveste un significato soprattutto simbolico: e cioè il famigerato articolo 18. C’è una scelta di fondo per un nuovo canale prioritario di ingresso al lavoro, il contratto a tutele crescenti, la cui bontà dipenderà in concreto da come esso convivrà con quali e quanti contratti a tempo, e come verrà considerato rispetto al canale che meritava invece davvero di essere considerato prioritario: l’apprendistato. C’è una parte positiva in principio ma che oggi è strozzata da uno stanziamento di risorse risibile, cioè la riforma degli ammortizzatori sociali. E c’è infine una parte che avrebbe dovuto essere considerata la più importante di tutte e che resta di fatto tutta da scrivere, quella della nuova Agenzia del lavoro per intermediare domanda e offerta di occupazione. Come si vede, il giudizio complessivo non può essere improntato a un generico ottimismo.
Che l’articolo 18 fosse un simbolo – con tutta l’importanza metafisica che hanno i simboli – lo si è capito dal fatto che ancora una volta è diventato il catalizzatore ideologico del pieno dissenso sindacale e della minoranza Pd. L’abolizione del reintegro giudiziale per i licenziamenti individuali economici – che era restato insieme all’indennizzo nella riforma Fornero – è un altro passo avanti verso la risoluzione arbitrale e non conflittuale dei rapporti. In concreto, però, quanto più nei decreti attuativi sarà pervasiva la lista delle fattispecie per le quali resta il reintegro giudiziale nei licenziamento discriminatori e soprattutto disciplinari, tanto più le cose potrebbero non cambiare poi di molto. In ogni caso, visto che poi la nuova disciplina si applicherà solo ai neo assunti, valeva la pena concentrare almeno altrettanta attenzione sul resto del Jobs Act, che avrà un impatto senz’altro maggiore sull’occupabilità. Peccato non sia andata così.
Sull’inserimento a tutele crescenti, in teoria ragionevolissimo, in pratica dipenderà dal governo in fase di attuazione decidere quanto “forzarlo” come unico canale verso l’occupazione a tempo indeterminato. Oggi, solo il 15-16% dei nuovi contratti è a tempo indeterminato: e finché le imprese avranno carichi fiscali tanto elevati, margini così bassi e domanda tanto volatile e bassa, è impossibile credere di obbligarle a passare dal 15% al 100%. Significa solo avere meno occupati. Pensate a quel che è avvenuto l’altro ieri: i precari dipendenti dei call center sono scesi in sciopero manifestando a favore del contratto a progetto che la politica vuole abolire, perché sanno benissimo che realisticamente le aziende di call center un contratto a progetto possono concederlo, un più oneroso contratto a tempo indeterminato significherebbe chiudere, spostare il servizio in Albania o Croazia.
La fine della cassa integrazione sostituita integralmente dall’ASPI universale, cioè da un sostegno al reddito volto alla riqualificazione e non più al sogno di difendere il lavoro dov’era e com’era, dipenderà invece dalle risorse. Inizialmente era promesso un miliardo e mezzo, e già era del tutto inadeguato (l’ASPI “copre” meno della CIG, a meno di alzare i contributi alle imprese, visto che la Cassa in deroga era a carico della fiscalità generale). Per strada si è perso anche quello. Tenete conto che l’Italia spende nel 2014 quasi 30 miliardi in politiche “passive” per il lavoro – gli ammortizzatori – e meno di un quinto in politiche attive, di cui la metà solo per pagare chi le dovrebbe realizzare. L’Italia avrebbe fortissimamente bisogno di riequilibrare le due voci, perché è solo con la formazione verso nuovi lavori e figure professionali che alziamo l’occupabilità. E lo stesso discorso vale per l’Agenzia del lavoro, che non può e non deve essere la somma degli attuali dipendenti degli uffici provinciali del lavoro, che intermediano il 2% dei nuovi occupati e sono solo una sinecura sindacale.
Quattro osservazioni finali: sui giovani, gli autonomi, la PA, e il Sud.
Ai giovani disoccupati, l’Italia sta offrendo l’ennesima colossale disillusione: dei 300mila iscritti da maggio Garanzia Giovani – che pure vanta una dote milardaria europea – solo il 29% ha avuto il misero beneficio di un primo colloquio, il 71% neanche quello. Possono credere a uno Stato capace di politiche attive per il lavoro, quei giovani rassegnati e per l’ennesima volta presi per i fondelli?
Quanto ad autonomi, free lance e partite IVA, sono per l’ennesima volta i grandi assenti nel Jobs Act. Come nel bonus 80 euro. Eppure, se si ammalano non hanno alcuna tutela. Eppure, pagano di contributi nella gestione speciale INPS più dei dipendenti. Finché la politica non capirà che dipendenti e autonomi sono lavoratori egualmente degni, l’Italia resterà zoppa.
Quanto al lavoro pubblico: se voleva essere rivoluzionario, Renzi doveva parificarlo in tutto e per tutto al privato. Invece, niente. Non capirò mai il perché. Del resto, non c’è neanche la svolta a favore dei contratti decentrati rispetto al contratto nazionale di categoria: e senza quella svolta, alzare la produttività è ben difficile.
Infine, il Mezzogiorno. Sui posti di lavoro persi in Italia con la crisi dal 2008 il 59 per cento sono mancati al Sud, quasi 600 mila occupati in meno. Nell’industria, in Italia gli occupati si sono ridotti del 9,6 per cento, ma al Sud del 14 per cento. Nelle costruzioni il Nord ha perso il 15,7 per cento di occupati, ma il Sud il 32 per cento, oltre 200 mila posti di lavoro evaporati in questo solo settore. E’ dura da mandar giù, ma nel Jobs Act non c’è nessuna terapia specifica o sperimentale, per questa voragine di reddito, giustizia e coesione sociale.
Tratto da: www.leoniblog.it