Gli imprenditori italiani sono più creativi di altri, ma sono deboli nella gestione professionale
Dai diversi osservatori sulla governance delle big italiane emergono, di anno in anno, segnali di miglioramento. Anche se permangono varie frizioni. Tra gli aspetti in ascesa, ci sono le quote rosa che passano dal 5% del 2010 al 10,6% del 2012 e l’ultima campagna assembleare del 2013 ha portato tale percentuale al 16,6% quale effetto della legge Golfo-Mosca sulle quote di genere. Mentre restano ancora poco chiari i compensi dei top manager, troppo spesso scollegati dai risultati aziendali e quindi portatori di rischi eccessivi. Eppure si tratta di un aspetto fondamentale nella valutazione degli investimenti. A maggior ragione se si parla di partecipate o controllate pubbliche.
In tempi recenti, il Ministero dell’Economia ha adottato uno specifico processo di selezione volto a migliorare la qualità dei Cda e dei collegi sindacali delle società direttamente controllate. Cda composti da persone qualificate, competenti e capaci sono necessari per consentire alle aziende di crescere. Nel quadro della spending review, il governo Renzi ha dedicato un capitolo all’efficientamento (Disciplina vincolistica sulle società partecipate delle pubbliche amministrazioni locali e miglioramento della governance). Si tratta di un processo di “aggregazione” delle municipalizzate inefficienti. Mentre dall’altro si vorrebbe creare una tagliola che scatta qualora il bilancio di una società partecipata sia in perdita per due anni di fila. In qual caso dovrebbe scattare la privatizzazione o la vendita delle quote o la liquidazione della società se la partecipazione dell’Ente locale risultasse superiore al 50%.
In pratica toccherà ai privati subentrare. I quali si faranno una semplice domanda: perché investire nel pubblico? Dal momento che la risposta possibile è una sola, ovvero la possibilità di creare valore nel lungo periodo, l’argomento governance, come risulta anche dai dati raccolti da GC Governance Consulting torna più che mai fondamentale in questo momento di ricerca di capitali privati esteri o nostrani. Un investitore vede in una buona governance un’assicurazione che consente innanzitutto l’approfondita conoscenza dell’azienda stessa. Un pilastro sicuro che tracci senza sotterfugi gli obiettivi strategici e gestionali. Per questo sarebbe opportuno, se si vuole avviare un vero percorso di privatizzazioni, che governo e ministero dell’Economia proprio adesso spingano per la creazione di palazzi trasparenti in grado di tracciare per tutte le partecipate un percorso verso le best practice private. E’ il momento non solo di mutuare dai migliori sistemi internazionali il controllo societario che tocchi il funzionamento degli organi collegiali, ma anche, come insegnano gli esperti in materia, di fare in modo che la corporate governance si occupi dell’efficienza partendo dall’analisi economico-finanziaria sulla base dei documenti di bilancio, e (a maggior ragione per le società di servizi e le utility) partendo dal grado di efficacia tarato sulla verifica della soddisfazione dell’utenza
Se il governo punta alle privatizzazioni, il percorso verso le best practice dovrebbe essere condiviso. Dovrebbe avvenire tra pubblico e privato. Aprire il dibattito servirà a coinvolgere aziende specializzate in governance con la conseguenza, almeno probabile, di portare un doppio beneficio. Da un lato si creerebbe una cultura pubblica di governance sempre più vicina alle esigenze del mercato. Dall’altro lato si creerebbe un effetto ricaduta non solo sui potenziali acquirenti delle attuali partecipate ma anche su tutta la platea degli stakeholder. Un lavoro di diffusione della cultura della governance fino a raggiungere le Pmi.
Sappiamo infatti che il problema di definire una chiara separazione tra proprietà e gestione è comune a tutte le imprese, sebbene si manifesti maggiormente nelle società quotate. Tutte le imprese hanno interesse a disporre di un buon governo sia per i predominanti aspetti etici legati alla trasparenza della gestione da parte degli amministratori sia per quelli competitivi. Senza parlare delle peculiarità legate al D.lgs. 231/01. Indipendentemente dalla struttura dell’azionariato e dalle dimensioni economiche della singola impresa, il buon governo facilita gli investitori, fidelizza i dipendenti, sostiene la crescita e soprattutto garantisce la continuità dell’azienda. In pratica stimola il passaggio generazionale e nel caso non fosse possibile permette la convergenza delle esigenze dei fondatori con la professionalizzazione del management. Un aspetto troppo trascurato in un Paese che per anni è stato in piedi sul capitalismo familiare e su aziende nelle quali azionista, manager e capo erano la stessa persona. La capacità media di un imprenditore tricolore di generare idee è nettamente superiore a quella di un concorrente straniero. Al contrario la capacità di gestirle professionalmente è molto spesso minore.
Tale differenza culturale emerge anche nel diverso approccio alla struttura del capitale. Nel mondo anglosassone la disponibilità ad aprire il capitale a terzi è la normalità in quanto significa vendere con profitto. In Italia invece essere associati al 100% all’azienda corrisponde a una elevazione sociale.
Una buona scuola di governance aiuterebbe a unire il genio italico all’ organizzazione aziendale che impone la globalizzazione.
Tratto da Linkiesta