di Giorgio Neglio
Ebbene si, le start-up sono diventate ‘di moda’ anche da noi. E, come spesso avviene, purtroppo, con ritardo rispetto ai nostri principali competitor comunitari e internazionali. Da qui il consueto fiorire di convegni, portali e blog sul tema, così come il moltiplicarsi di associazioni, società e ‘esperti’ che, a vario titolo, offrono a queste ‘giovani imprese’ consigli, servizi e proposte più o meno utili per affrontare la concorrenza e il mercato. Da più parti ci si interroga sulle condizioni per fare dell’Italia una start-up country – come già accaduto negli anni del boom economico – con posizioni che vanno dall’entusiasmo sfrenato al realismo con sfumature pessimistiche circa la possibilità che questa tipologia d’impresa possa contribuire a far ripartire lo sviluppo e, in particolare, a dare opportunità di una ‘vita attiva’ ai giovani che oggi versano in una drammatica situazione occupazionale.
È certamente positivo tornare a parlare d’impresa e innovazione, perché solo così sarà possibile mirare al recupero del terreno perduto in questi anni di crisi, che hanno visto deteriorarsi il nostro tessuto produttivo e contestualmente depauperarsi il nostro capitale umano. Ma passando dal dire al fare, ovvero alle ‘condizioni di contesto’ e dei servizi di supporto, indispensabili per garantire un futuro alle start-up, i limiti del nostro ‘sistema paese’ si fanno sentire con tutta la loro problematicità. Il Rapporto “Doing business 2013″ della World Bank colloca l’Italia al 73° posto (su 185 paesi) al mondo a livello di ‘business environment’ e, con riferimento agli indicatori ‘avvio di un’impresa’ e ‘accesso al credito’, rispettivamente all’84° e al 104° posto nel ranking, con un peggioramento di 8 e 7 posizioni rispetto allo scorso anno. Se è indispensabile puntare ad un deciso snellimento delle procedure e delle autorizzazioni per fare impresa, elemento questo sul quale molto si è detto e scritto negli ultimi anni, ma con limitati risultati in termini pratici, è altrettanto urgente indirizzare l’impegno di tutti i soggetti istituzionali, delle associazioni di rappresentanza e delle istituzioni creditizie verso la messa a disposizione delle imprese innovative di adeguati asset finanziari e manageriali per lo sviluppo.
Secondo una recente indagine realizzata da Italia Start-up, il potenziale imprenditoriale italiano ancora inespresso sarebbe pari a circa 300mila aspiranti startupper, di questi solo il 20% riusciranno a concretizzare la propria idea d’impresa, mentre per il restante 80% il principale ostacolo all’azione resta la disponibilità, ovvero il reperimento, delle risorse finanziarie necessarie all’impianto e alla gestione aziendale.
I dati a disposizione parlano di una stretta creditizia verso le imprese, pari a 38,7 miliardi di Euro solo dell’ultimo anno (più di 100mila Euro in meno al giorno). Su questo fronte è, quindi, quanto mai auspicabile un rapido cambio di direzione del nostro sistema creditizio che deve tornare ad assumersi il rischio di contribuire alle dotazioni di capitale per le iniziative imprenditoriali, e anche di quelle più innovative. In attesa che il barometro del clima di fiducia alla base del circuito dei finanziamenti tra banche-imprese torni ad essere positivo, alcuni strumenti nati nell’ambito delle community sempre più attive di utenti dei social media, possono contribuire a superare le croniche debolezze del nostro sistema, facendo leva sulla partecipazione ‘dal basso’. Pensiamo, ad esempio al fenomeno del crowd funding. La notizia è di questi giorni: una start up di Palermo, la WIB, in sole 48 ore, ha raccolto più di 500mila Euro, grazie a questo sistema innovativo di incontro tra domanda e offerta di risorse finanziarie on-line che mettono direttamente in contatto i giovani innovatori con privati cittadini in cerca di investimenti. Si tratta di esperienze che fanno ben sperare ma che è necessario regolamentare ‘con giudizio’, evitando di ‘spegnere sul nascere’ le energie positive di un nascente mercato di capitali destinati (finalmente) all’investimento produttivo.
C’è poi un secondo fondamentale insieme di asset necessario a garantire un ecosistema sostenibile per le start-up, quello dei servizi finalizzati allo sviluppo del capitale umano. Le neo-imprese hanno bisogno di competenze manageriali in grado di sostenere i processi di crescita e il confronto sul mercato. I giovani che si lanciano nell’arena competitiva devono potersi districare tra scelte strategiche, business plan, venture capitalist, piani di marketing e assetti organizzativi per affrontare le fasi di impianto e sviluppo delle proprie imprese. Non basta, infatti, una buona idea, e un eccellente bagaglio di competenze specialistiche per garantire il futuro delle organizzazioni. Una delle modalità più promettenti per innescare questi processi, oltre alla tradizionale e non sempre efficace formazione manageriale, è quello di favorire una proficua osmosi di competenze e conoscenze tra senior e junior, sulla scorta delle positive esperienze dei business angels, puntando soprattutto su mentoring e coaching. In questo modo si riuscirebbe a realizzare anche un efficace utilizzo e la contestuale valorizzazione dei manager più esperti, che condividono con i giovani una difficile situazione occupazionale.
I ‘luoghi’ deputati all’attivazione di queste sinergie sono in primis gli incubatori promossi dalle università nell’ambito dei quali le competenze tecniche e scientifiche dei giovani ricercatori e imprenditori in erba devono trovare terreno fertile per fondersi virtuosamente con skill manageriali, capacità imprenditoriali e concrete occasioni di accesso a finanziamenti e servizi innovativi di supporto. Nei ranking internazionali il primo incubatore universitario italiano, I3P – Politecnico di Torino, si classifica al quarto posto in Europa e al 12esimo nel mondo. Un posizionamento di tutto rispetto che, unito all’avvio di incubatori in altre realtà territoriali, come il recente LUISS EnLabs di Roma, ci fanno ben sperare sulla capacità del nostro paese di competere anche su questo fronte. Bisogna tuttavia evitare di agire in modo isolato, partire da queste e da altre positive esperienze per costruire una rete di eccellenze pronta a raccogliere le sfide della competizione globale, con l’obiettivo di raggiungere innovazione e crescita, attraverso il networking tra i diversi attori dello sviluppo, dalle pubbliche amministrazioni, ai rappresentanti delle parti sociali, passando per le istituzioni finanziarie, fino alle imprese ei manager. Questo è lo sforzo più importante che la business community nel suo insieme dovrà affrontare per la costruzione di quell’ecosistema favorevole al ‘fare impresa’ (e, quindi, anche al ‘fare start-up’) in un momento difficile come quello che stiamo affrontando. Questa è, allo stesso tempo, l’unica strada per riuscire a trattenere quei ‘cervelli’ e quei capitali che altrimenti rischiano di prendere il volo verso lidi più ospitali.
Tratto da L’impresa Online